Sinonimo di classe, estro e mentalità vincente, il calciatore brasiliano è sempre stato il target principale delle squadre europee di primissima fascia. La formazione calcistica sulle spiagge di Copacabana o tra le favelas di Rio, infatti, è il punto di partenza dei più grandi esportatori della samba e dei numeri da circo che tanto fanno impazzire gli amanti del bel calcio. Di pari passo con il dispiegarsi della globalizzazione anche il vento verdeoro ha iniziato a soffiare in maniera sempre più decisa verso il calcio che conta: le squadre che ambivano alla conquista dei grandi trofei nazionali e continentali avevano l’obbligo di ingaggiare il calciatore più rappresentativo della Seleçao del momento.
IL SOGNO BRASILIANO DELLA JUVENTUS
Quando intorno alla Juventus i giornali impazzivano per il passaggio di Kakà dal Milan al Real Madrid, Lucio si apprestava a diventare la colonna portante della difesa dell’Inter del triplete e Dani Alves vinceva la Champions League da protagonista dopo la splendida finale di Roma contro lo United, anche i bianconeri presero la decisione di dare una significativa svolta alla propria rinascita post calciopoli fondando i propri sforzi di mercato sul perseguimento dei talenti ”Made in Brasil”. E così arrivò Amauri, che si era ben distinto tra le fila del Palermo (che all’epoca sfornava talenti su talenti) nella stagione 2007-2008, e che fece discretamente bene al suo primo anno al fianco di Del Piero & co. mettendo a segno 14 reti in 44 presenze totali. Alla vecchia gestione Blanc, però, non bastava, e a Ciro Ferrara vennero regalati, attraverso un investimento di circa 50 milioni di euro, Felipe Melo e Diego, protagonisti negli anni precedenti rispettivamente con Fiorentina e Werder Brema. Di loro si parlò un gran bene: la Juventus aveva finalmente le potenzialità per lottare per lo scudetto, per spezzare un’egemonia interista che dal 2006 piegava inesorabilmente le altre squadre al suo potere. Le prime partite di quella disastrosa stagione 2009-2010 fecero ben sperare in tal senso: dodici punti nelle prime quattro giornate e punteggio pieno. La Juventus si avviava prepotentemente verso la definitiva riconferma dopo l’oblio della serie B. Alla seconda giornata arrivò addirittura la straordinaria vittoria sulla Roma (che concluse il campionato al secondo posto quell’anno) nel rovente pomeriggio dell’Olimpico grazie alle eccellenti prove offerte proprio dai due nuovi acquisti. Da lì in poi, però, fu un lento declino. Diego riuscì a siglare appena altri tre gol nel campionato italiano nel resto della stagione, offrendo peraltro prove negative che, a onor del vero, andrebbero lette alla luce di una stagione complessivamente disastrosa. Stesso discorso per Felipe Melo: acquistato per quella verve che avrebbe dovuto garantire una solida copertura a centrocampo, il centrocampista della selezione brasiliana non fece altro che complicare un cammino già difficile per i suoi, collezionando svariati cartellini rossi e dando prova di essere la copia sbiadita di quel giocatore ammirato a Firenze l’anno prima. E Amauri? Un fantasma. Inizio positivo – come tutti del resto. A fine stagione, poi, 30 presenze e 5 gol, come il suo collega pagato fior fior di quattrini. Giocoforza il primo dei tre fece le valigie la stagione successiva, l’ultimo fu spedito in prestito al Parma a gennaio 2011, mentre Felipe Melo rimase a far danni ancora un altro anno, salvo poi essere spedito al Galatasaray quando Conte, appena arrivato sulla panchina bianconera, ne decretò l’inutilità alla causa.
QUALI LE CAUSE DEL FALLIMENTO?
Premessa: nella Juventus 2009-2011 chiunque avrebbe fallito. È da considerare, d’altra parte, che i brasiliani in questione erano stati acquistati per dare una svolta decisiva ad una squadra che comunque dopo la serie B si era piazzata prima al terzo e poi al secondo posto. Il fallimento di quell’investimento tutto samba e caipirinha fu decretato dal fatto che, vuoi per mancanza di rilevanti dotazioni economiche, vuoi per la mancanza di reali talenti in quel periodo di transizione dei pentacampioni del mondo (emblematico il fallimento a ”Sudafrica 2010”), di fatto la combriccola capeggiata da Blanc si assicurò le prestazioni di giocatori che di brasiliano avevano solo carta d’identità. I pochi fenomeni rimasti, per essere acquistati, necessitavano, poi, di un esborso troppo oneroso per la struttura societaria dell’epoca.
GESTIONE AGNELLI-MAROTTA
Successivamente, la gestione subentrata nel 2010 ha avuto la lucidità di non acquistare nessun brasiliano di quella generazione transitoria che avrebbe potuto portare ad un altro fallimento sportivo. Fred, Ganso, Elano e Luis Fabiano sono solo esempi della mancanza assoluta di talento in un paese che sul talento dei singoli ha costruito la propria fortuna.
Da qualche anno, però, il trend è cambiato. L’avvento di Neymar nel calcio che conta ha decretato, infatti, la nascita della generazione verdeoro 3.0 che ripropone il trend del funambolo brasiliano vecchio stile. E proprio da questa Marotta ha deciso di attingere a piene mani, grazie ad una combinazione progettuale che, nel momento di massima espressione della nuova generazione di campioni, ha portato la Juventus ad avere la forza mediatica, sportiva ed economica per poter attrarre certi giocatori. E così sono arrivati i vari Alex Sandro, Dani Alves e, ultimo ma non per importanza, Douglas Costa. L’ex Barcellona ha già salutato la Vecchia Signora, ma potrebbe essere rimpiazzato con un altro brasiliano, Danilo, fenomeno al Porto ma che al Real Madrid ha trovato poco spazio. Quasi in una sorta di déjà-vu, quindi, si potrebbe ricomporre quel trio brasiliano che ebbe poca fortuna alcuni anni fa ma che, attraverso investimenti mirati a garantirsi il ”meglio sulla piazza”, potrebbe questa volta risultare decisivo ai fini del raggiungimento degli obiettivi cardine della società.