Attaccare, attaccare, attaccare VS Lucidità, lucidità, lucidità

Ci son giornate lunghe e giornate intense. Quella di oggi, tra strade e stadi di Barcellona, ha il sapore di qualcosa d’incompiuto, che dev’essere ma ancora pazienta a diventare.

La Juve è arrivata: sorridono tutti, giocano a chi non pensa al domani, a chi stasera si rilasserà guardando una partita o giocando sul filo dei pensieri. Il Barça sa però divertirsi a stuzzicarsi, a credere di poter tornare grande con un pugno di magia dettato dall’ambiente: il miedo escenico esiste, c’è, si farà sentire. E allora guardare tutto quel vuoto, nel walk around, un po’ rasserena: per i tremolii c’è pur sempre domani.

ATTACCARE, ATTACCARE, ATTACCARE

Ma Luis Enrique sa che il Camp Nou, i centomila che l’affolleranno, le tonnellate di riflessioni, sigarette e preghiere, non possono scalfire i legni difesi da Buffon. Uno stadio non segna: però aiuta in tanto altro, e in tanti sguardi. Aiuta nel trascinar fuori l’anima di chi insegue, aiuta a condizionare stati d’animo, ad indirizzare anche la preoccupazione degli inseguiti. Attaccare, attaccare, attaccare: il mantra del Barça è questo. Non può essere altrimenti: non con questo risultato d’andata, non con quell’arsenale lì davanti. L’ex Roma si fa Leonida e il blaugrana si tinge di rosso spartano: non c’è domani. O meglio: c’è solo domani. E un passo, uno solo, dopo l’altro, con un movimento dolce ma deciso, continuo e ripetitivo.

Del resto, le attese sono quanto di più soggettivo e personale possa esserci. Va così nella vita, sempre. E va così nel calcio, pure: ché quando aspetti qualcuno o qualcosa, tutto quel che completa il mestiere d’aspettare ti rende ciò che poi si vede in campo. Luis Enrique, in conferenza, è un mastino che tiene a freno la lingua: non il cuore. Distaccato dagli stessi colori che l’hanno reso grande.

LUCIDITÀ, LUCIDITÀ, LUCIDITÀ

Ci sono storie di similitudini, qui a Barcellona. E storie di profonda differenza, di situazioni mutate in versi su cui nessuno avrebbe speso un nichelino. I due allenatori si annusano a distanza, percepiscono l’odore di grande sfida e la paura che tutto possa finire da un momento all’altro. Certo, Allegri lo sa: questa Juve non è il Psg, né può diventarlo. Però sa anche che quei tre lì, quelli atomici, micidiali, inafferrabili per lunghi tratti della partita, possono scaraventarlo giù dal trono che si è costruito a fatica. E che ora si gode. 

Predica, indica, chiede e quasi implora: la parola è sempre la stessa, ‘lucidità‘. I momenti difficili arriveranno, le paure e l’ansia appariranno: perché non importa quanto possa prepararti, animarti, sentire il peso di certe sfide. Il Barcellona è il Barcellona. Messi è Messi. Iniesta è Iniesta. E il resto va da sé.

E il resto verrà, in un modo o nell’altro. Pardon, in una maniera pure precisa: con la testa. “Perché chi è forte di testa, è forte anche in campo”, dice Allegri, con cognizione di causa e d’amore: con l’intelligenza, la sua e quella della Juve, ci ha costruito un quarto di finale da brividi. E ancor prima un testa a testa col Bayern, e ancor prima una finale di Champions. Lunga vita alla lucidità, allora. E a chi sa mantenere a freno le troppe emozioni di una serata che – comunque vada a finire – s’appresta a diventare indimenticabile. E lunga vita alle frasi fatte, a tutte i ‘è una partita secca’, ‘è come una finale’, ‘bisogna restar calmi’. Danno la misura dell’uomo, e pure dell’impresa da compiere.

Niente s’è fatto, tutto c’è da fare. Ma la Juve guarda a testa altissima uno stadio, una squadra, una società che di gloriosa ha anche la presunzione. È già di per sé una vittoria, questa: frase scontata, quindi reale.

Dal nostro inviato a Barcellona,
Cristiano Corbo

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