L’Italia è un Paese di conservatori. Anche i cosiddetti progressisti di idee procedono sovente con andamento circospetto. Questo è un Paese che malsopporta gli strattoni, i voli pindarici, le fughe in avanti. Da noi si è portati a far durare le cose oltre il più ragionevole lasso di tempo e, se costretti dal precipitare degli eventi, si fa in maniera che si cambi affinché tutto resti come prima.
Coraggio, temerarietà e… progettualità
Non ci si stupisce allora se, al sorgere di una novità che rompe drasticamente col passato, ci sia un sollevamento di popolo. D’altra parte anche l‘abitudine a criticare a priori chi fa, è un tratto distintivo dell’italica gente. In altri termini, il luogo comune secondo cui si andava meglio quando si andava peggio, la fa da padrone.
Ci vuole coraggio o temerarietà per proporre un’idea (anzi, l’idea) che acceleri in avanti una storia di 120 anni. Ci vuole la vocazione al pionierismo, unita al luogo in cui si inventa da sempre il futuro. Perché i torinesi sono pionieri dalla notte dei tempi, sarà per la geografia di confine che li accompagna e Torino la città in cui tutto ha inizio.
Ecco perché pare così normale che il nuovo logo della Juventus strappi col passato, proietti nel futuro e scavi un solco ormai invalicabile tra ciò che era la vecchia idea di “stemma”, per cedere il passo ad un “ideogramma”.
Nuovo logo Juventus, i perché della scelta
La Cina è vicina, anzi è già in casa nostra. Bene, con un’azione di ripartenza che ha del geniale e che magari si vedesse eseguita spesso dalla squadra in campo, la Juventus va alla conquista dei mercati che vorrebbero conquistare il nostro, facendolo con uno stigma della stessa consistenza degli ideogrammi che compongono lo scritto di quei paesi lontani. Marco Polo avrebbe scritto la seconda parte del “Milione”, per esaltare un tale accadimento. Lo avrebbe intitolato “Il miliardo”: di euro ovviamente. E che sia un’ideogramma lo afferma la J che tanto emozionava l’Avvocato e tutti noi; il ritmo del bianco e del nero; lo stile minimalista tipico della trasmissione immediata di un’idea; la concentrazione di tutto un mondo in uno spazio infinitesimo. L’identificazione istantanea, dai lapponi dell’Artico agli indios della Patagonia.
Facciamocene una ragione: non si fanno più i fatturati con le ottime intenzioni dei soci del Juventus Club Valle Varaita (ad esempio, con grande amicizia per gli juventini di Elva e di Sampeyre). Non si va da nessuna parte con i mini abbonamenti ai gironi di Champions League. I diritti televisivi stanno implodendo sotto le azioni destabilizzanti di presidenti di provincia che vorrebbero famelicamente gli stessi soldi dei grandi club: pare spinti dalla crociata del riequilibrio delle forze in campo (ognuno usa chiamare il denaro come più gli garba!).
La Juventus ha un bacino di utenza pari al mondo intero. Come il Manchester United, il Real Madrid, i New York Yankies, i Los Angeles Lakers. Il brand, questa nuovo mostro totalizzante del secolo XXI°, viene prima di tutto e con esso il suo logo. Prima anche di Torino, della zebra, dei sacrifici di chi segue la squadra, del passato e del presente.
Fa ribrezzo anche solo a pensarlo, pure a chi scrive, sia chiaro, ma la forza della squadra e le vittorie future dipenderanno sempre più dalla capacità di essere performanti soprattutto fuori dal campo. Lo JVillage che sta sorgendo a fianco dello Stadium lo sta a testimoniare. Paradossalmente il conto di un ristorante o la prenotazione di una stanza di albergo saranno importanti tanto quanto un gol di Higuain. Col nuovo logo la Juventus sarà “vendibile” 24 ore al giorno, in ogni parte della Terra, in ogni condizione e con ogni prodotto dell’assortimento marchiato “J”.
Si compreranno i campioni vendendo pantaloni ai Millenials. Piaccia o no, è la globalizzazione, bambole.
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