Torino, la periferia e l’aria pulita. Roberto Bettega nasce lì, in una casa non troppo lontana dalla città, ma dove si respira un’altra vita. E papà Raimondo e mamma Orsola lo sanno bene: crescere un figlio in un clima migliore, mentre il tempo scorre tranquillo, così come gli ideali. Proprio come quelli che un papà carrozziere e una mamma maestra cercano di inculcarti. Ed in mezzo le passioni, quelle vere che ti prendono il tempo e il cuore: come quella per la Juventus di papà Raimondo che diventò la stessa di Roberto in un pomeriggio da Derby in Curva.
LE PRIME IN BIANCONERO – Da quel giorno la sua vita sarebbe cambiata e il calcio sarebbe diventato uno dei suoi amori più grandi che ha preso il via da CasaJuve, la scuola di avviamento per giovani calciatori. Là Roberto conosce Mario Pedrale, il suo primo maestro. Passano gli anni e passa la trafila nelle giovanili bianconere, prima Pedrale, poi Rabitti e la prima squadra vista solo dalla panchina perché l’altezza c’era, il talento pure, ma mancava l’esperienza. Allora si decise di mandarlo un anno in prestito, al Varese, alla corte del Barone Liedholm. La Serie B e vent’anni nemmeno passati, Bettega ci sguazzava dentro così facilmente che, nella sua prima vera stagione da professionista, realizzò 13 reti in 30 presenze. Il necessario per far rimanere tutti a bocca aperta, anche Rabitti che lo richiama a casa impressionato dalla sua tattica e dalla sua capacità di stare in campo.
LA SVOLTA – Un vero rapace d’aria, col marchio del colpo di testa, ma con i piedi in grado di confezionare vere e proprie perle. Otto reti nell’anno del secondo tricolore, sei nella stagione 1974-1975 e il talento che continuava a fiorire, le capacità che continuavano a perfezionarsi e quell’esperienza che iniziava a crearsi. E la chiamata in Nazionale non poteva tardare ad arrivare: fu Fulvio Bernardini a regalare, per la prima volta, la maglia azzurra a Bettega. Un nuovo inizio, fatto di alti e bassi. Dalla splendida triangolazione con Paolo Rossi nel Mondiale 1978, all’infortunio al ginocchio che gli impedì di partecipare al Mundialito ’82.
BIANCONERO A VITA, O QUASI – E la carriera bianconera che continua scorrere: Picchi, Vycpalek, Carletto Parola. Bettega continua ad incantare e realizzare reti che resteranno nella storia, come la rete contro il Milan: una vera e propria acrobazia in colpo di tacco che lascia lo stadio a bocca aperta. E questo è solo l’inizio, Bobby gol continua a stupire e niente sembra fermarlo. Niente, o quasi. Nel gennaio del 1972, arriva, però, la malattia a mettersi sulla sua strada. La diagnosi era chiara: infiammazione all’apparato respiratorio, pleurite, e stagione praticamente finita. Ma la determinazione no, quella era ancora troppa e la stessa che lo riportò in campo sette mesi dopo, ancora più affamato di prima. Poi la svolta: sulla panchina bianconera arriva Trapattoni. Zoff, Cuccureddu e Gentile, Scirea, Causio, Bettega e Boninsegna, una Juve da battaglia che riesce a conquistare la Coppa Uefa battendo l’Athletic Bilbao, con una rete di Bettega che resterà nella storia. E il resto sono solo record, trofei da mettere in bacheca e coppe da alzare al cielo. 481 volte con quella maglia sul petto e 178 gol realizzati. Sette scudetti, due Coppe Italia, una Coppa Uefa e la Coppa dei Campioni sfiorata per ben due volte. E poi l’addio alla Juventus, arrivato nell’estate del 1983. E, ancora, l’ultima stagione da protagonista, col Toronto Blizzard. E quei soprannomi ancora vivi: Cabeza bianca, Bobby gol, per indicare un attaccante destinato a restare per sempre nella storia bianconera. Una guida, un professionista dentro e fuori dal campo. E mai parole migliori per descriverlo arrivarono da Gianni Agnelli: “E’ stato un autentico campione in campo e fuori, per anni l’uomo guida della nostra squadra”. In lui, talento e professionalità sono riuscite a fondersi alla meraviglia, regalando all’albo bianconero uno dei goleador più importanti della storia.