“Protezione, crescita ed esplosione di un talento assoluto“. Potrebbe essere il titolo del trattato che un giorno Max Allegri scriverà a proposito della gestione dei primi mesi bianconeri di Paulo Dybala. Sottotitolato per i non udenti, verrebbe da aggiungere, con riferimento non troppo velato a chi ha criticato il tecnico nei mesi scorsi per lo “scarso utilizzo” dell’argentino. Chiacchiere facilmente smontate dai numeri che lo stesso allenatore illustrò in una delle sue ormai epiche conferenze stampa, ma l’Italia (in particolare quella del calcio) è un paese che trova il suo fondamento nelle chiacchiere da bar, quindi “prima non lo faceva giocare”, adesso “ha capito che è forte e lo fa giocare”. Demenza allo stato puro: soprattutto perché sono sillogismi di dubbio valore partoriti da chi, per mestiere, dovrebbe analizzare il calcio in maniera ben diversa. Allegri lo ha sempre fatto giocare, ma nel modo e coi tempi giusti: e proprio per questo, sta diventando così forte da essere ormai titolare inamovibile.
TALENTO&SACRIFICIO. Ariel Ortega, Denilson (quello di Brasile ’98, per capirci), Jay-Jay Okocha, Cassano, Morfeo, Gascoigne, Taarabt, Ben Arfa, mettiamoci pure Ronaldinho: ma la lista degli enormi talenti sprecati dalla scarsa voglia di sacrificarsi potrebbe essere infinita. Chiaro che il confine tra la predisposizione genetica e l’ambiente in cui ci si trova è molto labile: magari se qualcuno dei suddetti fosse arrivato alla Juventus, le cose per lui sarebbero cambiate. Ma con Dybala non si poteva correre questo rischio: l’argentino potrebbe aprire una nuova Expo solo di talento puro, con tanto di chilometriche file al padiglione del suo piede sinistro. Ma la Juventus di inizio campionato era un cantiere in corso: le rivoluzioni finiscono sempre col tagliare qualche testa “eccellente”, e le enormi aspettative sull’attaccante ex Palermo avrebbero potuto schiacciarlo ove mai non fossero state subito confermate. E il rischio c’era tutto, visto il contesto non proprio esaltante in cui si è trovato nei primi mesi a Torino: la Juve non girava, e se anche Dybala avesse incontrato difficoltà, avrebbe potuto risentirne in una fase così delicata della sua crescita come uomo e come calciatore.
DNA BIANCONERO. Ma qui si vede tutta la differenza tra la Juventus e le altre società, qui emergono le enormi qualità di un grande allenatore come Max Allegri. Dybala è stato impiegato a fasi alterne ma con continuità perché “imparasse” la Juve, ma non gli si potevano immediatamente affibbiare troppe responsabilità: bisognava instillare il carattere e il dna juventino all’interno del talento. L’argentino ne ha di suo, ma non si poteva rischiare di lasciare nulla al caso. Col ritorno al 3-5-2, Allegri ne ha completato la trasformazione in una formidabile seconda punta di raccordo (forse facendogli vedere numerosi dvd di Tevez, un po’ come fece Capello obbligando Ibra a guardare le immagini di Van Basten…). Prima punta a Palermo, il tecnico livornese gli sta insegnando a fare tutto: viene incontro, attacca la profondità, si allarga in appoggio agli esterni, contrasta sempre il primo possesso palla degli avversari. E’ migliorato fisicamente, perché ha molta più forza sulle gambe; inoltre il suo modo di controllare il pallone toccandolo spesso rende molto difficile l’intervento ai difensori, perchè riesce a tenere la sfera sempre molto lontana dall’avversario ma incollata al piede. Ha grinta, cattiveria agonistica, e una classe senza confini. Carattere e talento, dna Juve.
IL PREDESTINATO. Questo è un campione: a chi ricorda Sivori, a chi Messi. Piano coi paragoni, d’accordo: ma Dybala non poteva trovarsi una società migliore in cui crescere con calma ed esplodere, non poteva trovare allenatore e compagni migliori da cui imparare tanto. Verranno anche i momenti difficili, ma lui è un predestinato: basta che nessuno lo dica a Zvonimir Boban.
Gennaro Acunzo