“Quei giuramenti, quei profumi, quei baci infiniti, quelle idee, rinasceranno“. Era la speranza di Charles Baudelaire. Il noto poeta francese scriveva così duecento anni fa. Duecento, un’infinità. Eppure c’è un filo conduttore che lega gli uomini del passato a quelli del presente: la speranza.
Inutile girarci attorno: stiamo vivendo una tragedia che sta portando via tantissimi cari. La Roma vuota del drone solitario che sorvola il Colosseo, Papa Francesco in una San Pietro deserta, le lepri di Milano che comandano i parchi, le città vuote e le luci spente. Immagini su immagini. Le nostre menti volano via, vorrebbero varcare un finito orizzonte e perdersi dietro la spuma del mare. La realtà sta imponendo una vita diversa, relegata, fatta di sola speranza. Nel domani. Nella medicina. In un canto o in una preghiera. Per le strade c’è solo l’odore che esce dalle cucine. Nemmeno il Deus ex machina della Metafisica, De Chirico, avrebbe dipinto un quadro così surrealista.
Eppure ci manca il calcio. Quel pallone che rotola libero – come vorremmo essere noi- per il prato verde. Ci mancano i doppi passi di CR7, le urla, le giocate di Messi e Neymar, i gol di Lewandowski. I tifosi, gli spalti gremiti, Anfield che canta “You’ll never walk alone“. Le lacrime, i sorrisi dei bambini quando vedono un campione prendere il pallone e correre. Ci manca tutto di quello sport. Le attese, le notti insonni in attesa di un big match, la birra con gli amici al pub, gli abbracci, le discussioni. Le pagelle, il fantacalcio. Potremmo continuare all’infinito. Anche nel calcio vive la speranza: i gol allo scadere, le punzioni dal limite, le rimonte epiche. Sembrano un lontano ricordo che piega le nostre anime al passato. Tornerà.
Quando affronti la tempesta, non devi avere paura del buio: tornerà anche il calcio, in un secondo momento. Adesso le priorità devono essere altre. Sono altre. Le immagini dolorose di Bergamo devono imporre una riflessione. Questo silenzio assordante che circola, gli uccelli che cantano, la natura che svolge il proprio corso. Per il pallone ci sarà tempo.
Il calcio, già. Quel meraviglioso sport che accomuna chiunque: giovani, anziani, donne, bambini. Tutti. Non c’è confine. È un’idea che ci rende felici, un fiume in piena che cerca la propria foce, un grido disperato d’amore. La domenica passata davanti alla televisione, Ronaldo che salta oltre due metri e mezzo, il calcio può essere tante cose: sport, intrattenimento, sfogo sociale. Si usi l’espressione che più si preferisce. Una sola cosa è certa: in questa quarantena si sta capendo l’importanza del mondo del pallone. Perché la sua assenza è una spada di Damocle. Perché il martedì e il mercoledì c’è la Champions, la Coppa Italia o qualsiasi altra competizione, perché il sabato sera si esce dopo il derby, la domenica non si fa aperitivo perché alle 18 c’è la Juventus. Il calcio è tutto questo. Vita, passione, impegno. E amore. Per dei colori, dei calciatori, una maglia. È una mancanza che si avverte. È nitida.
“ Non aver paura del buio
alla fine della tempesta,
c’è un cielo d’oro
e la dolce canzone d’argento
cantata dall’allodola“.
Aspettiamo con ansia di tornare ad osservare ventidue giocatori correre dietro ad un pallone. Aspettiamo, in trepidante attesa, il canto dell’allodola risuonare sui prati verdi. Vogliamo tornare ad essere quei bambini, un po’ cresciuti, con gli occhi sgranati, che sognano dietro una rovesciata, una giocata qualsiasi e urlano di gioia. Il nostro cuore freme per tornare ad essere quella bandiera che sventola, senza pensieri. Questa infinita favola chiamata calcio.
Non vogliamo più vedere immagini desolanti, preghiere disperate e pianti senza fine. Ci aggrappiamo alla speranza. Al calcio, a tutto. A noi stessi, agli altri. Perché c’è sempre speranza. E tornerà ogni cosa. I profumi, i baci infiniti, le idee, il pallone, nel cerchio della vita. Torneremo a ruggire dalla Rupe dei Re.