Non può esserci il sole, su Torino. E non può esserci pioggia, poi. Può solo esserci il grigio del vuoto, dell’assenza, dell’astinenza fulminea dopo una dose di emozioni così impattante. Gigi al quindicesimo si distende sulla sua sinistra, e una porzione di passato ti abbraccia alle spalle come il più infimo dei brividi: non c’è singolo membro di questo spettacolo che voglia chiuderla qui, e qualcuno con gli occhi fissi su Buffon prova a tenere ancora aperto il sipario.
E’ uno spettacolo. Tutto. Diciassette atti intrisi di cuore, passione, delusioni, sofferenze, scelte. E oggi è un continuo mescolarsi ai ricordi, specchiarsi nei percorsi trafficati di tutti i colori possibili ma di una squadra soltanto. E di un uomo, soltanto. Col numero uno, con una maglia verde fiammante, che ancora ha voglia di smanacciare, portarsi al limite dell’area, invocare l’uscita alta alla difesa.
Gli occhi fanno quel che possono: incatenano al cervello i suoi guantoni e i suoi pollici alti, i continui salti ai messaggi neanche troppo criptati di quelli che sono i suoi tifosi ancora per una lunga e tremenda notte. O forse davvero per sempre.
Davanti si caricano le giuste dannazioni per portarsi a 95, e dal ’95 Gigi poggia le braccia sulle ginocchia per liberarsi dall’afa di un cielo coperto di metà maggio, e poi per tenersi pronto, per rimbalzare sul pezzo. Tre e quattro passi all’indietro, palla – loro – che non ha il coraggio di interrompere con una mezza macchia la storia più bella. E la traversa di Dybala, e gli applausi a lui, e quelli della curva a Gigi fermatosi soltanto a bere e dissetatosi di un mare d’affetto. Della partita importa il giusto: da festeggiare c’è una parte incredibile della vita di tutti noi raccolta in due semplici mani. Non ci sentiremo mai più così al sicuro.
Il gioco di sguardi con Rugani è un racconto di speranza, un’immagine che si analizza e scontorna nei brividi: Gigi chiude un occhio mentre l’altro gli ride, ‘Ruga’ gli stringe i pugni e gli dà uno dei quarantamila abbracci che Buffon vorrebbe ricevere. Poi Pjanic: e la certezza di chiudere ancora con il sorriso, mentre Pinsoglio sveste i panni del fortunato spettatore e inizia un lungo e straziante riscaldamento.
Sono questi, gli attimi più belli. Quelli dell’attesa, della paura, delle tristi certezze: che tutto finisce, ma non per questo sfiorisce. Che ogni lacrima che si sta per versare, ha dentro una storia fatta di diciassette anni, milioni di momenti, miliardi di piccoli e cocciuti istanti con Buffon prima certezza dei tuoi sentimenti più sinceri.
Cessa qui, allo Stadium, davanti al minuto sessanta che raccoglie il senso di tutti i ‘perché’, una parte ingombrante della nostra esistenza. E termina nel modo più giusto, sentito, amorevole di tutti: con un abbraccio che non ha fine.
Il mondo è in piedi, e l’acqua che vien giù copre solo in parte le lacrime che non smettono di piovere. C’è una folla oceanica di sensazioni e turbamenti, di soddisfazioni e cuori appesi. C’è la consapevolezza che tra gli uomini, Buffon sia stato l’unico realmente capace di intendere i momenti, di farli suoi, di aprirsi completamente a questa storia e di averlo fatto senza filtro.
La curva lo invoca a gran voce: non ne avrebbe bisogno. Il giro è già stato calcolato, immaginato, sognato. Ed è esattamente come avrebbe dovuto essere: senza barriere e senza fine. Lichtsteiner sbaglia il rigore, la Juve giochicchia sul finale, Buffon impara a nuotare nel vortice di mani che cercano di rubare un ultimo contatto con l’eroe di sempre.
Ci sarà una Juventus senza Buffon: questo lo sanno tutti. Non ci sarà mai più una Juventus con Buffon: questo fa male, e un po’ paura. La pioggia scende ancora forte sullo Stadium, Stephan Lichtsteiner saluta tutti, Gigi non sarà più il numero uno di questa squadra. Rendersene conto sarà devastante.
Cristiano Corbo
(che è onorato di aver raccontato meravigliosi istanti di quest’Uomo per Voi)
This post was last modified on 21 Maggio 2018 - 11:41