Diciamolo chiaramente: abbiamo un grosso problema su come raccontiamo il calcio.
Sì, si parla di tutti noi: nessuno escluso. Dai protagonisti agli addetti ai lavori, passando per i tifosi. L’escalation che si sta vivendo è decisamente preoccupante.
Buffon che parla di un arbitro in quel modo oppure Benatia che monta un teatrino dell’assurdo con un comico sono solo gli ultimi due esempi.
Abbiamo introdotto alcuni termini nel lessico che usiamo, quotidianamente, per parlare di calcio che con lo sport c’entrano poco. Si parla di complotti, “partite vendute”, “arbitri corrotti” con una facilità disarmante – e preoccupante.
Abbiamo portato la dialettica calcistica a un livello davvero pericoloso. A un’altezza tale che qualunque altro passo in avanti può rischiare di far precipitare la situazione.
Le parole hanno un peso specifico importante e, sopratutto, hanno sempre delle conseguenze. Eppure in questo frammento della vita pubblica sembrano fluire con totale noncuranza.
C’è da ricordare – o, meglio, precisare – che la lingua non è un organismo astratto, freddo, creato a tavolino: è figlia di una cultura in continua evoluzione.
Perciò una simile crisi del linguaggio con cui si parla di calcio dovrebbe far preoccupare sul serio.
Arrivati a questo punto:
Si può fare qualcosa per arginare la deriva?
Forse sì e senza gesti necessariamente eclatanti.
Il cambio nella retorica pallonara, d’altro canto, fa il paio con il cambio del linguaggio in tantissimi altri campi della “vita reale”.
La politica è un esempio lampante: s’è passati dal classico, impastato politichese a una lingua diretta, che spesso valica il confine del “rasoterra”.
Più la lingua è cruda, avvertita come genuina, e più la persona è ritenuta “affidabile” – attenzione, non necessariamente capace.
Sarebbe un po’ pretenzioso imputare questo cambiamento radicale – magari non ancora avvertito in tutta la sua portata – a un singolo fattore: i social network, per esempio, collaborano ampiamente, ma da soli non bastano.
Si tratta di una trasformazione silenziosa, che ha messo radici ormai solide. Ci siamo addormentati con un seme appena piantato e, adesso, ci siamo svegliati all’ombra di una quercia.
Le larghe foglie sono decisamente tante: dalle discussioni al limite dell’incivile nei bar sport televisivi fino alle uscite di chi, il calcio, dovrebbe raccontarlo come mestiere.
Ma, come abbiamo appena accennato, tutto ciò è frutto di un cambio di direzione più generale. Inoltre, parlando prettamente di calcio, si sta vivendo una regressione qualitativa della classe giornalistica che, di certo, non aiuta.
Il giornalista-tifoso è una figura che ha fagocitato l’intera discussione intorno al pallone.
Non esiste più neutralità e, quando esiste, viene attaccata e “smontata”.
La necessità di estremizzare i contenuti per ottenere visibilità in un mare di disponibilità ha portato a un abbassamento di toni e modi generalizzato.
L’attacco diretto è diventato comune, la ricerca dello scandalo all’ordine del giorno e l’offesa gratuita accettata e accettabile – se non dovuta.
Il calcio, inteso propriamente come sport, è ghettizzato a pagine secondarie, rubriche in seconda serata e microscopici universi che si formano sul web.
Ora, queste righe potrebbero suonare stonate su un portale che, per vocazione, racconta le vicende di una singola squadra.
In realtà, parzialità non significa soggettività o, peggio ancora, tifo applicato al giornalismo – che, se qualcuno lo avesse dimenticato, rimane un fondamento della democrazia.
D’altra parte, ogni racconto giornalistico, qualunque sia, offre una visione di parte – nel senso “di una parte”, quella di chi scrive o parla.
L’obiettività, un mantra spesso citato, non è che un’astrazione irrealizzabile, per un numero imprecisato di fattori. Semplicemente, anche quando è (forzatamente) ricercata, finisce col diluirsi negli influssi della visione personale.
Dovrebbe stare al lettore formarsi un’opinione, confrontando le varie parti e mettendole in relazione.
Tuttavia, sempre rimanendo nell’orto calcistico, il giornalista-tifoso reclama la verità assoluta senza tentare minimamente il confronto – al massimo, limitandosi a mimarlo.
Allora, per concludere, cosa possiamo fare tutti?
(Visto che di calcio, chi più e chi meno, parliamo e ci sentiamo autorizzati a parlare tutti)
Com’è facilmente intuibile, nessuno ha la soluzione in tasca – tantomeno qui. Così come la transizione è stata lenta, graduale e silenziosa, allo stesso modo il ritorno sui binari, se possibile, sarà un processo lungo.
Sembra retorico dirlo, e, infatti, può esserlo, ma ciascuno dovrebbe impegnarsi a recintare i fomentatori d’odio nel loro ristretto campo d’azione.
Non amplificare i loro messaggi, bensì cercare la via di un dialogo costruttivo, per quanto possibile, e comunque nei limiti della decenza – in primis, s’intende, linguistica.
Sembra retorico dirlo – e no, questa volta non lo è affatto – ma una certa fetta d’informazione dovrebbe seriamente interrogarsi sul proprio ruolo nella situazione stagnante del calcio italiano – globalmente inteso.
Cerchiamo, tutti, di abbandonare terminologie prese in prestito da altri campi, che di sportivo hanno poco, e proviamo, di nuovo, a parlare di sport partendo dal suo elemento primo: il campo.
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