C’è dell’atroce in queste partite: è il non poter prevedere il tuo destino. O magari è solo vederti gettare l’anima, il corpo, i sogni in soli novanta minuti di botte e preghiere. Ma c’è davvero dell’atroce, e c’è stato per tanto, troppo tempo: perché questa partita non l’hai dominata neanche nei tuoi pensieri. L’hai solo sbeffeggiata, con tre, quattro giri di lancetta che sono l’esatto punto in cui il sole picchia sul mare. Un minuscolo metro, ma decisivo per cambiare il clima.
In tutto questo metteteci le storie: quella di Allegri e degli uomini di Conte ancora decisivi, quella di Higuain che ieri portava a casa il suo secondo allenamento semi completo di fila, e poi si ritrova a scrivere sul suo diario di ottantadue minuti di fiato e cinque di pura essenza calcistica. Quella di una Juve inevitabilmente diversa, ma di un interessante imbarazzante: quella per cui non smetti di sbarrare gli occhi, quella pure più carina della reginetta del ballo.
E poi c’è il Pipita. Che sta male, poi bene, quindi si ferma, dunque si rialza. E in tre minuti, in soli ed esaltanti tre minuti, in brevissimi e lunghissimi tre minuti, scende dal cavallo delle incertezze e sfida a duello la sorte. Salvando la Principessa, chiaro. Perché sotto le grinfie di un Tottenham reale, la Juve era finita quasi trascinandosi di sguincio nella trappola. Le pozioni usate dagli avversari: aggressione alta, forza fisica, tenuta atletica. Buffon poi s’è preso il conto degli anni e della sfortuna, lasciando un finale non degno mica di una favola. Solo di una storia già scritta.
Ma scritta male, perché non ha tenuto conto dell’eroe dei momenti difficili. Di un uomo che è cresciuto in un ambiente bravo a dargli fiato, a non fargli pesare tutto il mondo di una città o di una squadra sulle spalle. Lavorare di squadra, prendersi i riflettori solo quando serve: ecco, è un bel tragitto sulla strada verso la consacrazione da leader. E se lo fai con una caviglia quasi rotta, allora rischi di diventare ben più grande delle tue stesse prestazioni.
Però non è stata una reazione, quella. Quella della Juve, s’intende. È stato solo un lampo, un pescato fresco d’orgoglio. Niente di premeditato negli spogliatoi: un sussulto seguito e sfruttato fino all’osso. Cosa vogliono dire tre anni di costante crescita emotiva ed europea, sta tutto qui: andarsi a prendere i centimetri e rialzare la testa anche nei momenti in cui fa più male. Anche quando hai un paio di sedute e poca benzina nelle gambe. Soprattutto se resti l’ultima ancora a cui far appigliare la fame tua e della tua squadra.
Bel gol, Pipita. Si vede che sei andato lì di coraggio, consapevole che quella palla sarebbe stata solo per chi l’avesse meritata. Bravo a crederci, sempre. E a smarcare Dybala in campo aperto, sterminato, infinito come il fattore intelligenza del tuo tocco. Quattro secondi di cavalcata che sono durati l’eterna beatitudine, i tre passettini prima di calciare, il gol. Che ha squarciato l’irreazione bianconera. Quindi riscritto una pagina apparentemente triste e vuota. L’ha fatto Gonzalo: lo stesso uomo che per loro non esisteva nelle notti importanti. L’ha fatto Gonzalo, con una caviglia malandata, due sedute d’allenamento, e ottanta minuti di sacrificio. L’ha fatto Gonzalo: ricordiamocene tutti, e facciamolo sempre.
This post was last modified on 9 Marzo 2018 - 09:01