Oggi stavo parlando con dei colleghi del traffico che si può trovare a Torino. Di tutte quelle persone che prendono la macchina e vanno al lavoro. Per qualche assurdo motivo ho pensato alla vita di Carlo Pinsoglio, terzo portiere della Juventus. E ho immaginato la sua vita, i suoi pensieri. Chissà se si trova d’accordo con ciò che ho scritto.
“Mi sveglio la mattina e devo andare al lavoro. Lavoro… mi sembra ancora strano chiamarlo così. Uno pensa al lavoro come ad un luogo in cui timbrare il biglietto, arrivare in orario in ufficio, trovare parcheggio, affrontare il traffico. A Torino poi, nelle ore di punta ci sono dei viali in cui sembra che i torinesi amino trovarsi tutti insieme, in fila, ognuno nelle proprie macchine, a comporre una lenta carovana, ognuno con la propria destinazione. Io non riesco a chiamarlo lavoro: se devo descrivere quello che faccio ogni giorno dovrei dire che vado ad allenarmi. A volte facciamo delle partite, giochiamo. Giochiamo. Lo scopo di tutto questo dovrebbe essere quello di scendere in campo quando poi ci sono le partite: novanta minuti (più recupero e pause Var) di ansie varie, sofferenza dentro e fuori dal terreno di gioco aspettando che quella palla entri dentro e che l’arbitro fischi la fine il prima possibile. Un’ansia che si vive sia dentro che in panca. Io, più che altro, la vivo in panchina, e le possibilità che le viva in campo sono ridotte al lumicino, per non dire nulle.
Una volta avevo più possibilità: era il 2010, ero il portiere della Primavera, con me giocavano ragazzi come Ciro Immobile, Iago Falque, Fausto Rossi, gente che comunque una certa esperienza se l’è fatta ai massimi livelli. Loro hanno avuto chances di scendere in campo con quella Juventus sfortunata di Ferrara prima e Zaccheroni poi. Io però potevo essere titolare, quando sia Buffon che Manninger si erano infortunati e la porta era sguarnita. Sembrava che le porte per la porta (licenza poetica, concedetemela) sembrassero spalancate, che il tappeto rosso fosse srotolato davanti a me nel corridoio che mi portava a giocare tra i grandi: i telegiornali cominciavano a parlare di me, sentivo i tifosi e gli amici sperare in un mio esordio. Sentivo la mia carriera al decollo. Contro la Sampdoria invece giocò Chimenti, si perse 1-0 con un gol da centrocampo. Il giovedì dopo si era riproposto il problema in Europa League, dovevamo difendere al Craven Cottage il 3-1 con il Fulham. Anche lì mi accontentai della panchina, il risultato finale però… lasciamolo perdere che è meglio.
Dopo quella parentesi la mia vita si è snodata nei campi minori. Tanta serie B, tanta gavetta. Pure un’esperienza a Viareggio, dove tutti i calciatori sognano di essere notati, ma non certo di finirci a giocarci. Non per sputare nel piatto dove ho mangiato, ma certo non è Viareggio la squadra in cui tutti sognano di giocare (viareggini a parte probabilmente). Sono stato sempre con la valigia in mano, sempre con l’incognita di non sapere cosa mi poteva riservare il futuro: “oggi sono qui, domani?”. E poi il colpo di Livorno: quella papera all’ultima giornata non me la scorderò mai, maledizione. Anche il fallimento del Latina mi rimarrà impresso sulla pelle. Ora che sono di nuovo a casa, mi sembra strano. Sento di nuovo il freddo dell’inverno torinese, la nebbia che scende giù, la neve che rimane ghiacciata per settimane dove nessuno passa mai. Non sento più l’ansia di scendere in campo: quando ti ritrovi davanti Buffon e Szczesny, è davvero difficile sperare di essere negli undici titolari.
Ho 27 anni, non sono vecchio. Non so ancora dove mi troverò la prossima stagione, non so se dovrò rifare le valige ancora una volta. Non so ancora cosa mi riserva il futuro. Non so neppure se sono così felice a stare sempre da parte. So solo che devo andare avanti e non fermarmi mai. Altrimenti sarà come trovarsi nella radiale di Moncalieri nelle ore di punta”.
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