Paulo Dybala, neo numero 10 della Juventus, ha rilasciato una lunga intervista al New York Times, durante la quale è tornato a parlare – tra le altre cose – della notte nerissima di Cardiff.
Mentre guardava il Real Madrid celebrare la vittoria, Paulo non riusciva a capacitarsene. Si trattava di una scena che aveva immaginato molte volte nelle settimane precedenti, ma a ruoli invertiti. E una parte di Dybala, infatti, rimase convinta che quello non fosse reale. “Continuavo a pensare che fosse un incubo, sperando di svegliarmi“. Ora, ciò che più ricorda è il silenzio: nella memoria di Dybala, nessuno disse una parola finché la squadra non tornò in albergo.
Una volta lì, i giocatori si dividono in gruppi, nutrono il loro dolore e, in indagini private, parlano dell’accaduto. Dani Alves ha poi detto che lui e Leonardo Bonucci avevano continuato a parlare fino alle 6 del mattino. La cosa che fece più male, però, secondo Dybala, era che la Juventus era arrivata a partita credendo di essere la “squadra migliore al mondo“.
“Avevamo battuto squadre molto importanti e non avevamo mai concesso più di due gol: il Real ce ne ha segnati tre in 45 minuti. In quei 45 minuti, che hanno distrutto tutto, non eravamo noi”. La parola spagnola che Dybala usa per descrivere le sue ambizioni di rilancio della Champions League – revancha – tecnicamente, in questo contesto, significa “rematch”. Ma il modo in cui lo usa è più letterale: vendetta. “Nel calcio, hai sempre la possibilità di revancha. C’è una frase in Argentina: è una espina clavada, una spina nel tuo fianco, qualcosa che ti fa male. Il dolore di perdere quella finale sarà con me finché non sollevo quel trofeo. Sarà allora molto più tranquillo.”
This post was last modified on 17 Agosto 2017 - 21:18