È stato un film. E all’interno c’era tutto: lo showreel degli incubi, dei sogni, dell’amore perduto e poi a fatica ritrovato. Ma alla fine vince chi l’amore se l’è guadagnato, sudato. Dagli undici metri come dall’alto del terzo piano del suo colpo di testa. O magari con un tocco dentro quando tutto sembrava perduto: perché serve coraggio, in campo, nella vita, in quel che resiste nel mezzo. Murgia s’è scaricato nelle vene una dose di quint’essenza calcistica: ora dispenserà brividi a vita.
Il coraggio, la Juve, l’ha avuto. È solo durato poco più di 4 minuti: una manciata di ottimismo che ha colorato l’Olimpico dell’oro della scorsa stagione, disegnando un futuro roseo come il passato. Poi però non è cascato solo il pero: è cascata una squadra intera sotto i colpi di un futuro che ha abbracciato più ombre, meno luci. Il bianco e il nero diventano allora quasi simbolici: perché le fiammate ci sono, e partono spesso dagli esterni. Il resto è invece vuoto cosmico, son sintomi d’inesistenza. La metà campo juventina si fa vortice scuro sotto i colpi del centrocampo biancoceleste, nero che paragonarlo alla pece diventa un complimento da gentiluomini.
Quattro minuti, diciassette secondi. Attimi in grado di cambiarla, questa partita maledetta. Attimi che però trovano Strakosha e muri mentali praticamente insormontabili. E se l’amore della tua vita decide ch’è il momento di andarsene con il più bello della tua festa, il massimo delle tue facoltà è arrancare.
Eppure Allegri ha avuto tempo, spazio, manovra. Non si sa quanto potere decisionale (e la scelta sul terzino destro è lapalissiana), ma questa squadra è principalmente sua. E a lui vanno additati i visi pallidi, i musi lunghi, l’incertezza collettiva che apre una stagione con più di un punto interrogativo. Del tipo: sicuri che non si abbia poi così bisogno di questo Marchisio? Oppure: quanto ancora può dare Cuadrado a questa squadra? Chiaro: sono pur sempre chiacchiere disfattiste d’una sera di metà estate. E chiaro, parte due: quattordici quattordicesimi della squadra scesa in campo ha bisogno di crescere in coesione, mentalità. E soprattutto dal punto di vista fisico.
Restano indiscutibili le scelte. Resta indiscutibile il tecnico. Se Benatia s’addormenta sul secondo e Cuadrado si gira su sé come se avesse perso il portafogli, sul taccuino del mister ci sono pochi errori da blu. Sui nuovi, neanche una traccia d’inchiostro: ci vuole tempo. Forse troppo tempo.
La scena entusiasta, il risvolto drammatico (a tratti drammaticissimo), poi la ricarica e la musica di certe notti volte a caricarti. Il lieto fine però è per chi sa azzannare le partite. Dieci minuti di vera Juve danno determinate dimensioni: questa resta la squadra più forte di tutte, ma le amnesie alla base sanno di potenziale – enorme – gettato al vento, alle ortiche, ad un finale che nonostante tutto resta giusto.
Il talento da solo può dire tanto, non ha tuttavia mai fatto la differenza. Non potrà mai farlo. Non quando il pallone scotta e hai soltanto un dieci a portata d’arsenale. È la dura legge degli uomini, è un’altra finale persa per assenza ingiustificata di estro. È il film della tua vita che ha nuovamente sentenziato un limite: quello che morde l’inconcludenza. Quello che crea e distrugge, da sé. Quello che non vorresti vedere mai, ma che vola alto. Come l’aquila laziale. La stagione è lunga, la Supercoppa resta una mazzata. Che fa male. Che fa crescere.
Cristiano Corbo
This post was last modified on 14 Agosto 2017 - 10:04