«Forse tutto è cominciato con quel tema alle elementari. Io volevo scrivere “il calciatore”, però mi sembrava troppo. Cosa avrebbe pensato la maestra? Mica è un mestiere quello, al massimo è un gioco». E invece del suo gioco preferito l’Alessandro Magno di San Vendemiano riuscì a fare lavoro, vita, cuore e anima, amore e poesia; della piccola sfera di cuoio, scudo e lancia, arma invincibile, stella polare dei suoi pensieri “alti e magnanimi più di quanto non comportasse l’età”, come racconta Plutarco a proposito del macedone. E come quel Magno di lui più noto, ma non di certo più amato, Alex Del Piero ha conquistato imperi e imperi di erbetta, quella stessa su cui ama ancora sdraiarsi, fissando il cielo per ricordarsi dell’essenza più autentica del calcio.
È a colpi di pennellate che ha dipinto il quadro strabiliante della sua carriera, una cavalcata leggiadra e gloriosa dal Padova al grande esordio juventino nell’estate del 1993. Con addosso ancora il profumo dei vigneti a prosecco, il rossastro del radicchio e il sole delle campagne trevigiane, a soli 13 anni, tutto cuore e scarpette, “prese un pallone che sembrava stregato, che accanto al piede rimaneva incollato”, canterebbe De Gregori, e decise di non mollarlo mai più, di seguirlo anche lontano da casa.
I primi passi di un mito dalla forza di un leone, il leone di San Vendemàn dal cuore gentile, mansueto, altruista. E, se il suo omonimo macedone si è avvicendato, con una inesausta sete di conoscenza e tensione verso l’assoluto, per raggiungere mete inesplorate e vette elevatissime, lui non è stato di certo da meno, tagliando traguardi che, agli occhi di chiunque altro, sarebbero sembrati intangibili e regalando al suo nome la fama imperitura che lo ha elevato nell’Olimpo delle leggende. Sogno dopo sogno, goal dopo goal, tra sacrifici e apoteosi, tra delusioni e acclamazioni, il cavaliere dalle insegne bianconere, spada sguainata ed elmo calato sulla testa, ha difeso la propria dama senza esclusione di colpi, senza mai abbassare la guardia. Perché, è ben noto, un cavaliere non abbandona mai la propria Signora. E, sempre goal dopo goal, come tocchi pennellati, ha tracciato il suo ritratto, quello di un fenomeno con gli occhi all’impossibile e con la statura minuta di quel Pinturicchio a cui deve il soprannome.
Perché certe parabole sono semplicemente opere d’arte, destinate a restare impresse nella mente e nel cuore, indelebili, pronte ad emozionare qualunque sguardo si posi su di esse, per lasciare, semplicemente, a bocca aperta; a partire da quella prima meraviglia di genio e intuito di Juventus- Fiorentina del 1994: una parabola perfetta, una traiettoria dipinta. Baggio gli ha fornito i consigli del maestro, la Natura il talento da fuoriclasse, la volontà la forza motrice principale e, forse, l’aria ebbra del Veneto ha intriso le sue radici della dionisiaca propensione ad inebriare tifosi di ogni tempo e ogni paese. Una strada tracciata dal destino, un bagaglio fatto di consapevolezza e abnegazione, la giusta dose di coraggio e forza di volontà: queste, le componenti necessarie per partire per un viaggio lungo, travagliato, ma dagli esiti fulgidi e splendenti. Proprio come Enea, Alex si è imbarcato, pronto ad affrontare tempeste ed imprevisti, pur di riscrivere la storia. Pio e devoto Enea, votato anima e corpo ad un’unica fede, forte di un compito affidatogli da una volontà superiore, quasi sacerdote, determinato nel condurre a termine la sua missione spirituale ed in grado di sprigionare l’ineffabile e di cogliere l’inafferabile. Umile al punto di scendere fino agli Inferi, senza compromessi, ma a testa alta, con la mano pronta a giurare sulla sua fascia di capitano, per trovare, proprio lì, nella tempesta più devastante, l’entusiasmo del bambino dai grandi sogni per risalire e portare a termine il compito che gli arde negli occhi e gli scorre nelle vene. Perché un campione è anche le scelte che fa.
Si sa “Scendere agli Inferi è facile: la porta di Dite è aperta notte e giorno; ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo, qui l’opera, qui la vera fatica”. Alex c’è. Alex resta. Perché la sua Signora non è fatta per rimanere esule in un mondo che non le appartiene. Lui, bianconero da sempre, eroe per scelta, ha spalle strette, ma forti e stringe i denti. Carica il vecchio padre Anchise sulla schiena, ha chiara la strada davanti a sé, ce l’ha dentro e promette l’approdo ad un destino migliore. E si ritrova a sognare la serie A, ancora, questa volta da campione e da capitano. Al suo segnale e al suo richiamo, risponde una squadra agguerrita, quella che i sogni li rende realtà e poi leggenda. E così, il traguardo delle 200 reti in bianconero e subito il ritorno tra i campioni. Un ritorno faticoso, che è come un reinventarsi, che costringe a mettere in dubbio le proprie certezze e a rifondarle dalle basi. Un ritorno immediato, dopo aver alzato al cielo il titolo della serie B, con orgoglio ancor più grande, perché quel titolo rappresenta forse l’atto d’amore più forte che leghi, per sempre, un capitano alla propria squadra.
E dopo il ritorno, ancora la burrasca, tra i mari in tempesta di una Juventus che sembra privata della propria identità e di quel DNA vincente che l’ha sempre caratterizzata. Burrasca in cui Alex è ancora faro luminosissimo: la standing ovation al Bernabéu gli rende omaggio ed eterna un campione che ha sempre infiammato i cuori dei tifosi, stupendo gli avversari. Ma ad Alessandro Del Piero non basta più regalare soltanto qualche sprazzo di magia. Non basta più sfoderare assist, dribbling, disegnare parabole perfette e segnare goal splendidi. Perché lui, il capitano, ha dentro le vene, nel sangue, negli occhi un compito da portare a termine: tornare a vincere, al fianco della sua Signora. E per farlo, ancora una volta, è pronto a mettersi in discussione. Perché un campione è anche chi, in silenzio, resta seduto in panchina ad incitare i propri compagni, a trasmettere il senso di appartenenza ad una grande storia, che deve continuare ad essere scritta. Chi, con la semplicità disarmante del predestinato, entra in campo quando chiamato in causa e pone il proprio sigillo, quel sigillo che significa vittoria, rinascita e gloria e che fa dimenticare l’inferno alle spalle. Proprio come quel goal alla Lazio, con una punizione, la sua specialità. Un capitano come Alessandro Del Piero la sua signora poteva lasciarla soltanto vincendo ancora.
Più di 700 partite con lo scudo ovale zebrato sul petto e oltre 280 reti complessive. Basterebbe questo per sbalordire. Basterebbe, sì, per un calciatore. Ma non sono i numeri che fanno un mito. Per Alex il calcio è una dimensione morale. C’è il destino, c’è la cattiveria agonistica, c’è la rabbia, la competizione, c’è la convinzione che vincere sia l’unica cosa che conta, ma c’è anche la passione, il gioco, la felicità. È lui stesso che lo scrive, “occorre la felicità interiore, perché un atleta triste è un atleta che parte sconfitto, in ogni attività della vita”. C’è, dunque, la cortesia, l’etica, l’ingenuità di quel bambino innamorato del profumo dei campetti e l’umanità di chi ama ricordare le tradizioni, assaporare, rivivere, ripetere, quando necessario, a se stesso che di un gioco si tratta, un gioco bellissimo.
Alle elementari, in quel tema, non ha avuto il coraggio di scrivere alla maestra che da grande sarebbe diventato un calciatore. Ma lo hanno scritto per lui, negli anni a venire, il sacrificio e la sfida, il talento e la bellezza, lo stile e la lealtà. Mentre lui era impegnato a scrivere la Storia.
Martina Santamaria & Stefania Lupelli
This post was last modified on 26 Marzo 2017 - 09:45