119 anni di storia, per la Juventus. Una leggenda inesauribile, ricca di personaggi. Uno di questi, uno di quelli che incarnano la Vecchia Signora è Marcello Lippi.
Claudio Zuliani, direttore di Jtv, ha intervistato l’uomo capace di vincere tutto in bianconero. Un viaggio nella mente del tecnico viareggino, che parte da lontano fino ad arrivare all’ultima delusione di Manchester.
“Sono stato alla Juventus per otto anni. Abbiamo dato una spinta alla creazione dello spirito juventino. Insieme a calciatori stupendi, sia dal punto di vista tecnico che umano”.
“Quando facevamo delle ripetute, durante le quali si andava a mille all’ora, i nuovi non ce la facevano e rallentavano. C’era sempre il solito Di Livio, oppure Torricelli, che li prendeva e diceva: ‘Qua non si ferma nessuno, forza!’. Questi avevano dei messaggi da parte di gente che aveva vinto Champions e Intercontinentale, ma si faceva il mazzo”.
La chiamata dalla Juventus è arrivata all’improvviso: “Non me l’aspettavo. Non avevo questa presunzione. Si giocava Napoli-Roma, io allenavo il Napoli e Moggi era il direttore della Roma”.
Prima della partita, Moggi mi salutò e mi disse: ‘Ti devo parlare, dopo’. ‘Di cosa?’, gli dissi. ‘C’è una squadra con le maglie bianconere…’. Io cominciai a pensare: al Cesena ci sono stato; all’Udinese, non credo… chi altro sarà? Giocammo la partita, poi mi disse che c’era la Juventus. La settimana dopo, ci vedemmo con la Triade a Roma, in una delle case degli Agnelli. Ovviamente, trovammo subito un accordo”.
Una lunga storia d’amore, iniziata con il lavoro: “Alla Juventus si va per vincere, non per arrivare secondi o terzi. Si arriva a vincere creando una mentalità, una filosofia, dei presupposti di un certo tipo. Cominciammo a lavorare: in Svizzera, nel 1994, portammo due tir con tutti i macchinari della TechnoGym. I giocatori pensarono: ‘Mamma mia, che ci tocca fare!’. In realtà, però, di quei macchinari ne utilizzammo il dieci per cento. Ma l’effetto psicologico fu quello di far capire che si doveva lavorare. E, infatti, si correva”.
“Si crearono le basi per una mentalità importante. Ricordo che nelle prime partite vedevamo gli avversari passarsi la palla e noi non andavamo a pressare.
Io gli facevo vedere i filmati e dicevo: ‘Quando squadre come Brescia e Cremonese giocano contro la Juventus, tengono palla e noi non andiamo a pressare restiamo così per novanta minuti. Fare zero a zero, per loro, è un grande successo. ‘Dobbiamo andare a cacciare la palla‘.
“L’esame grande fu la partita contro il Milan, quando Baggio segnò di testa, in mezzo a tutti i loro marcantonio. Il Milan andò undici volte in fuorigioco e s’iniziò a capire che stavamo arrivando a fare ciò che volevamo”.
La partita-chiave di quella prima stagione? “Juventus-Fiorentina, è facile. Ma ce ne furono tante, di partite-chiave: ogni volta che vincevamo e convincevamo, aumentando la nostra consapevolezza. Ma quella fu la svolta: perdevamo due a zero a un quarto d’ora dalla fine, poi facemmo tre gol. Con la perla di Del Piero. Quando non vinci da tempo, ci vogliono più cose per capire che quello è l’anno giusto.
Un’altra partita importante fu Parma-Juventus. Perdevamo uno a zero, poi abbiamo vinto tre a uno. Facemmo una partita splendida. Ricordo che, rientrando negli spogliatoi, dissi: ‘Se non vinciamo questo campionato, vi faccio…
Si cementifica un gruppo, in queste partite, non sono fini a se stesse. Anche negli anni prima la Juventus aveva fatto partite di livello, ma non così tante. Iniziò a farsi forte la convinzione che fosse l’anno giusto”.
“Si era creato un bel rapporto tra di noi: di fiducia, di stima. Sono le classiche situazioni in cui si può dire: ‘Andate sul tetto e buttatevi’ e loro lo fanno”.
“Ci sentivamo consapevoli di essere cresciuti. Una crescita di una grande squadra, come quella attuale, passa prima attraverso la supremazia nazionale. La Champions la può fare anche una terza, ma l’approccio è diverso”.
Quella stagione fu segnata dall’esplosione di Del Piero: “Del Piero è stato sempre determinante. Tant’è vero che Del Piero è diventato la Juventus, nel mondo, e viceversa. Ma non mi piace dire che è stato determinante solo lui, quanto tutta la squadra.
Avevamo la consapevolezza di essere arrivati a un livello non abituale in Italia. Alcuni mi chiedevano come facessi a giocare con tre attaccanti, ma potevamo perché i nostri attaccanti si sacrificavano. Le nostre caratteristiche, come il pressing, fecero crescere la nostra autostima”.
“Ogni tanto facevamo delle cene con la squadra. Un mese prima della fine, andammo a farne una. Alla fine, i giocatori mi chiesero come avremmo affrontato l’Ajax. L’Ajax, in quel periodo, era il Barcellona di due o tre anni fa. Io dissi che l’avremmo pressata in ogni zona del campo, come non aveva mai fatto nessuno. Non ci saremmo snaturati, perché eravamo abituati a giocare così”.
“I numeri in campo hanno importanza, ma non si vince perché si fa il 4-3-2-1. Quando giochi a quattro, se parte un difensore, sei a tre. Si vince perché si crea una mentalità, per la qualità dei calciatori. La bravura di un allenatore è tirar fuori dalla testa dei propri calciatori il meglio. Se ci sono calciatori di qualità e un allenatore riesci a farli rendere al massimo, è probabile che si vinca”.
“Il Barcellona ha fatto spesso il 3-5-2, partendo da un 4-3-3. Con gli esterni molto alti, i due centrali erano affiancati dal centrale di centrocampo. Lo stesso ha fatto il Bayern Monaco. Il modulo non è un limite in Europa: la mentalità è determinante”.
“Non ce n’era uno solo di leader, ma sette o otto. Ci sono diversi tipi di leader. Il leader tecnico era Del Piero, come poi lo è stato Zidane. C’è il leader di saggezza, che sa sempre dire la cosa giusta. Il leader d’esempio, come Antonio Conte. E il leader che non parla mai, come Angelo Peruzzi: quando c’era da prendere una decisione, tutti lo guardavano. I leader non sono i galli nel pollaio, che fanno i danni, ma quelli che fanno la fortuna di una società”.
“Alla fine della mia carriera, o quasi, posso raccontare di aver vissuto tre momenti eccezionali ai calci di rigore. Ti accorgi che è la serata giusta, anche in quell’occasione. Alla finale di Roma, quando c’era da decidere i rigoristi, tutti venivano verso di me con gli occhi sbarrati. Come per dire: io ci sono. La volta dopo, a Manchester con il Milan, nessuno mi guardava.
L’altra volta, invece, è stata a Berlino: tutti mi guardavano, come a Roma. Fu simpatico quanto successo con Del Piero: mi disse che avrebbe tirato l’ultimo. “Come a Roma”, ma gli dissi: “Tu non l’hai neanche tirato, a Roma” (ride, ndr). Avevo detto: il primo Pirlo, il secondo Materazzi, poi Del Piero. De Rossi disse: ‘Batto io il terzo’. E Del Piero il quarto. Per l’ultimo non sapevo chi scegliere: mi venne in mente Grosso. ‘Io?!’, mi fece. Risposi che era ‘quello dell’ultimo minuto’. ‘Hai fatto il rigore con l’Australia, al 94esimo. Il gol con la Germania al 120esimo. Perciò batti l’ultimo rigore’. Sono intuizioni, decidi in base a quello che vedi”.
This post was last modified on 2 Novembre 2016 - 17:00