Un’empatia che non c’è. Almeno, non ancora. Il motivo? Ignoto. Nonostante le indiscutibili qualità, l’avventura di Miralem Pjanić a Torino stenta a decollare. Un inserimento graduale, fin troppo. Specie per chi si aspettava che il bosniaco prendesse le chiavi del centrocampo bianconero aspettando il rientro di Marchisio. Semplicemente non è stato così. Anche se i motivi per lamentarsi, in teoria, non ci sono. I buonisti potrebbero appellarsi ai numeri, alle 3 reti e ai 4 assist in 11 partite. Ma le giocate estemporanee non bastano più. Non in questa Juve, alla perenne ricerca di un leader tecnico che la sappia prendere in mano. E stringerla, forte, per farla sentire più sicura.
Pjanić può e deve fare di più. Lo sa lui, lo sa Allegri. Che, nel post gara con il Napoli, ha aperto una parentesi sul momento dell’ex Roma: “E’ un po’ stanco, a lui chiedo tanto movimento. Spesso gli è mancata la lucidità nell’ultimo passaggio, la ritroverà presto, ha fatto gol e assist importanti”. Parole di chi la sa lunga sul potenziale inespresso di Pjanić. Spesso sul punto di esplodere: con Sassuolo e Dinamo Zagabria le melodie più dolci, intervallate da periodi di buio assoluto. Incomprensioni tattiche, clamorosi errori arbitrali, a volte pigrizia. Questi i motivi alla base di un climax irregolare. Che interroga e divide: Pjanić o non Pjanić?
Un dilemma amletico, il cui motivo conduttore è il procrastinare, proprio come nella famosa tragedia di Shakespeare: a una prestazione positiva si alterna una pessima. E la risposta all’interrogativo viene rinviata. Mercoledì il Lione. Un’altra tappa nell’enigmatico mondo di Miralem Pjanić, da scoprire fino in fondo. Perché ciò che non si conosce affascina. Ma fino a un certo punto…