Capitano mai dimenticato da giocare, l’allenatore della rinascita: Antonio Conte è stato una parte importantissima della storia dell’ultimo ventennio della Juventus, nonostante la rottura dell’estate 2014. Il tecnico leccese, ora coach del Chelsea, si è raccontato ai microfoni di Paolo Condò, nel programma “Mister Condò” di Sky Sport. Durante l’intervista, non sono mancati i riferimenti alla Juventus, sia per i suoi trascorsi da calciatore, sotto la guida di maestri come Trapattoni e Lippi, sia per quelli da allenatore. Di seguito i passi più importanti dell’intervista, riportati da “Gianlucadimarzio.com”.
“Un periodo bello in cui ho imparato tanto. Il campo di Sant’Antonio a Fulgenzio era rovinato ma noi avevamo tanta voglia di giocare. Quindi il prete ci faceva giocare in cambio della nostra presenza in chiesa durante la messa. Oggi le possibilità sono diverse, c’è meno voglia di soffrire e di lottare per ottenere qualcosa. Manca il talento “da strada”, dove una volta si sviluppavano le abilità”.
“Giocavo nella squadra di mio padre e quando voleva dare una lezione ai tutti interveniva su di me. Ero un ragazzo semplice e sono sempre rimasto così. Fascetti mi ha dato fiducia quando mi ha fatto esordire a 16 anni. Lui ha sempre avuto occhio per i giocatori giovani, così è stato anche con Cassano. Non mi paragono a lui che ha molto più talento rispetto a me, ma entrambi siamo cresciuti in mezzo alla strada. Mazzone, poi, mi ha fatto crescere anche da un punto di vista di sofferenza. Mi ha insegnato tanto”.
“Sapevo che c’erano degli osservatori” – continua Conte – ” che mi seguivano negli allenamenti e nelle partite. Fu un cambiamento molto importante. Se qualcuno mi avesse detto che arrivato a Torino sarei rimasto 13 anni, vincendo tutto e che sarei diventato capitano gli avrei risposto di farsi a curare… Avrei firmato per un terzo o per un quarto di quello che ho avuto dalla Juventus. Anche se tante volte ho pensato: ‘Ma chi me l’ha fatto fare di lasciare casa mia per essere meno felice?’. Il punto è che non volevo tornare a Lecce da sconfitto. “
E poi l’approdo in bianconero: “Arrivare a Torino è stata durissima sotto tutti i punti di vista. Pochi giorni prima ero in spiaggia a Lecce, lì ero solo in mezzo alla nebbia. Non riuscivo a dare del tu ai miei compagni, da Baggio a Schillaci. Che fatica! Dopo una prima amichevole difficile contro il Monaco, Trapattoni ha continuato a puntare su di me. Senza di lui non credo che sarei riuscito a restare così tanto alla Juventus. Poi arrivò Lippi e di lui mi porto dietro tante cose. Riusciva a motivarti ogni giorno.
“Nel ’96 sono diventato capitano,da quel momento devi mettere gli interessi della squadra davanti ai tuoi. Ricordo con grande emozione il mio primo scudetto e quello del 2002 vinto a Udine. Il ricordo di Perugia invece è devastante, non ho dormito per cinque giorni.”
“I miei genitori erano estasiati, così come lo ero io. Allenare l’Italia è qualcosa di incredibile e tutta la mia famiglia era favorevole a questa mia decisione, soprattutto dopo tre anni vissuti intensamente, con grande passione. Andare ad allenare la
Nazionale è stata anche una forma di rispetto nei confronti della Juventus. Il primo anno e mezzo è stato bello” – racconta l’ex allenatore bianconero, visibilmente emozionato e con gli occhi lucidi – “ma quello che siamo riusciti a creare in quei cinquanta giorni che siamo stati insieme è qualcosa di unico e straordinario. Una famiglia. Quando abbiamo perso con la Germania tutti piangevano perché sapevano che il giorno dopo non ci saremmo più visti. È stata una gioia immensa condividere certi momenti con tutti. Fossimo passati noi ai rigori avremmo avuto grandi possibilità di vincere l’Europeo”.
“C’è stato anche un momento in cui ho rimpianto di aver già deciso di cambiare: se non avessi firmato per il Chelsea… Non avrei potuto abbandonare i ragazzi. Le energie spese in Francia sono state veramente tante. Ci siamo buttati subito in questo nuovo mondo, un’esperienza totalmente diversa. Un grande club, nuovo, con giocatori e abitudini differenti. Abramovich? È esigente ma è molto appassionato. Non subisce il calcio ma vuole sapere. È venuto tanto volte per vedere gli allenamenti e per stare con il gruppo. Vuole conoscere e questo è bellissimo. Qui la struttura è straordinaria e io lavoro di più che in Italia. Noi allenatori siamo figli dei risultati – anche se il risultato è fine a se stesso perché quello che più conta è il lavoro. La figura del manager è più totalizzante, la sfida è stimolante e sono da solo perché la mia famiglia per il momento è rimasta in Italia. Ho la voglia di portare qui le mie idee e il mio metodo, anche se in Italia siamo più pronti a lavorare su tattica e su altri aspetti che qui sono secondari.”
“Là conoscevo tutto, sapevo come intervenire su ogni cosa e probabilmente è stato più facile. Qui è tutto nuovo, ma a livello di calciatori ho trovato grandissimi talenti. Ma il talento va lavorato perché si possa inserire in una squadra. Si sa che non vivo bene la sconfitta, cerco di evitarla in tutti i modi. Con il lavoro, anche maniacale. Voglio che i giocatori abbiano più informazioni possibili per evitare di perdere. Se poi si perde… dovrei prenderla più serenamente, me lo dice anche la mia famiglia. Io invece non dormo, cerco di capire perché. Mi piacerebbe, a volte, essere più superficiale. Ma il giorno in cui sarò più superficiale avrò perso tutto quello che sono”.
“Non sono sempre rose e fiori. Personalmente preferisco dire una brutta verità piuttosto che una bella bugia pur di mantenere un buon rapporto con loro. Alla fine, dopo il calcio, rimane la vita e io voglio sempre poter guardare negli occhi chi ho davanti. Do educazione e rispetto sempre, ed è quello che pretendo”.
This post was last modified on 30 Ottobre 2016 - 16:14