Milano è una prosa affascinante. Dal sapore americano, intriso dallo stile classico. Milano potrebbe essere un romanzo di Kerouac: On the Road, magari. Sulla strada: perché Milano vive di corsa, in un perenne affanno, un’ossessiva ricerca di qualcosa. Poi capita che tiri un sospiro, raramente: per poco, s’intende.
Ieri, piazza Duomo: il centro del vitalismo milanese. Una giornata strana: nuvolosa, ma con un bel sole – c’è qualcosa di trascendentale, in giornate così. Poche ore a Inter-Juve, che poi è finita come tutti sappiamo. Ma non importa, in questo momento: tutti vivono nell’attesa. L’attesa rende tutto più bello, tutto più magico. E quella magia si assapora, basta respirarla a pieni polmoni.
Il Duomo è affollato: come sempre, più del solito. Maglie nerazzurre e bianconere: spesso insieme, mai del tutto. C’è sempre una virgola a separarle. Ma di virgole a Milano ce ne sono mica tante. Tanto che in quel susseguirsi energico e incalzante di lettere, suoni, parole. E colori e odori e significati: sì, davvero un casino.
Lasciarsi travolgere da una giornata così è come essere investiti da un fiume in piena: un letto ingrossato da storie fantastiche. Spaccati di magica realtà in un contesto del genere. Ecco: proviamo a fermarlo per un attimo, quel fiume. A cristallizare una di quelle storie, uno di quei sguardi.
La folla sembra infinita, dalle strade che fiancheggiano la piazza. Qualche locale, qui e là, attira qualcuno dei passanti. Che comunque non smette mai di raccontare, anche in silenzio. Sedersi, inspirare e guardarsi intorno è una scoperta continua. Poi un paio di occhi: stanchi, ma dignitosi. Una dose di benzedrina che uccide un’ansia frenetica.
Rallentare è l’unico modo, effimero, di comprendere quest’infinito intreccio. Quegli occhi raccontano: non è una metafora. Sono un romanzo vivente: quante pagine, quanta poesia. Un romanzo maledetto, da un dolore grande. Dalla solitudine: un mostro indefinito, che divora l’essenza di un uomo. Che, anche se prova a nascondersi da quelle fauci, precipita tra le sue braccia.
Quegli occhi erano contornati da una barba visibilmente trasandata. Un volto ricco di rughe e saggezza, dominato dal bianco dei capelli disordinati. Un corpo esile, sofferente, che qualche straccio a stento copriva. Sarebbe il quadro perfetto per tanta, troppa gente: vittime del Progresso. Il valore assoluto del nuovo mondo, che gira al ritmo dei flussi della borsa. Un mondo impoetico, rotto da qualche verso saltuario. Che però si deve saper cogliere.
Quegli occhi lo sono. Sono musica nel rumore, colore nel grigio, sole nella pioggia. Dovremmo tutti fermarci. Basta un attimo. Via le polemiche, via le critiche: respiriamo, guardiamoci intorno e dietro, sorridiamo. I nostri polmoni, pieni di smog, sarebbero invasi dalla bellezza. E ci farebbero imparare tanto: da chi, affamato, ha ancora la dignità di dire no.