Un punto chiaro, veloce, leggero. Vaga tra la folla, ma la sua è una direzione precisa: guarda la porta, la sua metà. S’affaccia al mondo, e poi allo spicchio di tifosi che l’invoca, lo chiama, gli urla un ‘grazie‘ a pieni polmoni con l’ultima bacinella d’ossigeno che il cielo di Saint-Denis sa offrire. Gigi si alza in volo: lo fa dopo aver vinto un’altra partita fondamentale, lo fa dopo aver deciso nuovamente il destino del suo Paese. Lo fa ancora. Perché è Gigi Buffon, ancora.
Dall’altra parte il tempo è filato via come si fa l’ultimo giorno di scuola: la campanella degli acciacchi ha preso Casillas e l’ha riportato coi piedi sulla linea di fondo. C’è il nuovo che avanza, e avanza anche discretamente. Poi c’è Gigi: 38 anni, mani enormi, urla disumane. “Attenti lì che s’infila Nolito”, “bene” e “bravi” come se quella voce dovesse incontrastabilmente rimarcare la qualità degli ‘arretrati’ azzurri. In realtà la Spagna non è che gli faccia poi così paura. C’è Morata, vero: ma prima c’è Bonucci. C’è qualche incursione di Silva, magari: ma li avete visti come chiudono anche gli esterni? Ah, attenzione ad Iniesta: zero, neppure se volesse. E fidatevi: avrebbe voluto.
La partita di Buffon è un altro microcosmo, va essenzialmente oltre i banali 90 minuti e si riconsegna al mondo con un diverso tipo di adrenalina, con un nuovo formato d’incazzature e con tutto il talento che sa conservarsi in venti anni di carriera. Essere Gigi Buffon, ancora, per sempre.
Oggi tutta Europa ha finalmente capito quel che probabilmente sarà pura nostalgia, fenomeno incomprensibile ma ormai parte integrante di una storia diventata leggenda già dieci anni fa. Oggi l’ha finalmente inteso come s’intendono i segreti delle religioni: credere in Conte è un dogma, credere in Buffon è puro atto di fede. A suo modo, amorevolmente eterno.
Essere Gigi Buffon, ancora. È emozionarsi, ancora. Farlo davanti a settantamila persone, ancora. Spendere notti in bianco tra pensieri e domande, tra carica e un po’ di sana preoccupazione. Essere Buffon è tuffarsi dal lato giusto, al momento giusto. È metterci una pezza tra l’intuizione e la scaltrezza innata: un po’ come la vita, ai problemi si rimedia pure buttandosi a capofitto senza fermarsi allo stop dei mille pensieri.
Essere Gigi Buffon, ancora. E per fortuna ch’è stato Gigi Buffon, ancora. Altrimenti chissà: tra le mille storie di questi Europei, si sarebbe fatto probabilmente largo anche un intero continente di rimpianti. Non in questo microcosmo, non tra incazzature, urla, pugni chiusi. Non se il pallone poi ha da superare l’ultimo ostacolo col cuore azzurro.
Essere Gigi Buffon, ancora. Chiedetelo pure a Piqué, a Del Bosque, alla Spagna. Vi diranno che essere Gigi Buffon, esserlo ancora, ha salvato un’Italia tremendamente bella, clamorosamente sprecona. Poi alzatevi, applaudite, ringraziate. E un po’ fomentate il magone: perché sappiate che verrà il giorno in cui non sarà Gigi Buffon, ma sarà altro. Si spera bello, sì. Però non con quest’intensità di colore, non con questa passione.
Essere Gigi Buffon, ancora. È essere sudditi di un talento in grado di scandire i momenti di un’intera squadra, è farlo da così tanto tempo che l’anormale non fa più neanche effetto. È solo l’attimo in cui si palesa il fuoriclasse. Unico, puro, irriducibile. Col viso felicemente stravolto da una vita da numero uno.
Cristiano Corbo