La Coppa Italia ultimamente è stata riabilitata e la seconda manifestazione nazionale non la giocano più le squadre di riserva. Non è estranea a questa riabilitazione anche la Juventus famelica di vittorie di questo ultimo quinquennio in cui spesso le avversarie sono state costrette a sperare solo nella ex coppetta per dare un senso alla stagione. E la Juve anche in era Conte in fondo lasciava fare senza protestare poi troppo (ma la finale col Napoli lasciava già prevedere che le cose sarebbero cambiate). Nel biennio di Allegri la Juve non ha lasciato neppure le briciole sulla tovaglia, e la giusta celebrazione all’Olimpico con inno di Mameli, presidente della Repubblica e fuochi d’artificio ha reso anche più solenne la doppietta giunta dopo la stella d’argento. La gara è sembrata una sintesi rapida della stagione juventina: le ambasce iniziali (con gli stessi due infortunati, Marchisio e Khedira, indispensabili in mezzo al campo), le titubanze dei nuovi come Rugani a far rimpiangere gli assenti e Pogba che faticava a fare il leader della squadra. Nella seconda parte però la Juventus, pure con benzina ridotta, è cresciuta e ha cominciato a far pesare il proprio tasso tecnico. Un flashback rapido e indolore. A celebrare la vittoria sul Milan, difficile per carità ma che col passare dei minuti sembrava ineluttabile come nella tradizione juventina recente, è arrivata la ciliegina sulla torta del gol confezionato dalla panchina lussuosa dei penta campioni e firmato da Alvaro Morata al probabile passo d’addio.
NUOVI ARGOMENTI – Ora che l’ennesimo record è stato stabilito, doppietta coppa/scudetto per due anni consecutivi: mai nessuno. Ora che Allegri ha mostrato l’ennesima magistrale combinazione di sostituzioni vincenti, non diteci che è solo fortuna. Ora che il confronto fra le altre e la Juventus ha stabilito che i bianconeri con mezza squadra fuori e agli sgoccioli di una stagione estenuante sono meglio del miglior Milan dell’anno. Ora che non bastano più neanche le stucchevoli storie di arbitri e di Juve che ruba per nascondere la reazione che mostrano i bianconeri ad ogni casuale episodio arbitrale sfavorevole: andare a vincere (è successo sabato in finale, era successo anche a Firenze e col Toro). Ora che il triplete di trofei vinti sul suolo patrio ha confermato che durante un lungo lustro in cui si sono avvicendati allenatori e campioni in maglia bianconera il dominio, almeno in patria, è stato imbarazzante (per gli avversari). Ora, di cosa altro vorreste parlare?
IL SUCCESSO LOGORA CHI NON CE L’HA – Ma ci si può stancare di vincere? Probabilmente è più facile stancarsi di perdere, ma fatto sta che nella macchina da due trofei l’anno messa in piedi da Andrea Agnelli e dal suo team si mescolano sempre gli ardori di chi è arrivato a Torino per vincere (Dybala, Mandzukic, Khedira, Alex Sandro, Zaza ad esempio e lo stesso Allegri lo scorso anno) a chi la fame non l’ha mai persa nonostante la sequenza impressionante di successi (a cominciare da Buffon e Bonucci). La squadra di quest’anno ha vinto in maniera diversa, meno aggressiva e con minore ricerca ossessiva del possesso palla. Ma si è perfezionata (se possibile) ancora nell’efficacia e nel cinismo con cui abbranca un qualsiasi brandello di partita che possa far immaginare un risultato diverso dalla vittoria. Le contrarietà sembrano accendere ancora di più l’ossessione degli uomini di Allegri alla ricerca dell’unica cosa che conta. La rimonta dal quattordicesimo posto alla consueta vetta solitaria e le serie impressionante di successi dal derby in poi resteranno nella storia. Anzi nella 5toria. Storia che non finisce, che probabilmente riprenderà a settembre con la splendida ossessione della Champions. Ma quella è un’altra storia.
Salvatore Arpaia
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