Trent’anni. È un traguardo importante, s’iniziano a fare i primi bilanci, guardando indietro e pensando al futuro. Lo farà anche Mario Mandzukic, oggi: a Slavonski Brod, il 21 maggio ’86, vede la luce uno che imparerà presto a combattere. A sei anni, quando i bambini di solito giocano e corrono per prati verdi, Mario scappava dalla follia, dalle bombe, dalla guerra: c’era la Germania, per lui, che poi tornerà. Beffardo, il destino.
GLI INIZI, TRA I GABBIANI… – “Ciò che non mi uccide, mi rende più forte”, ha tatuato in ebraico sul fondoschiena. E no, non è una frase fatta: Mandzukic ha interiorizzato ogni paura, ogni ferita e la porta dentro con la fierezza d’un leone. Tornerà, in Croazia: a guerra finita, quando ha dieci anni, e, dopo aver iniziato a giocare con il Ditzingen, piccola località vicino Stoccarda, continuerà col “suo” NK Marsonia, i “gabbiani della Sava” – il fiume che attraversa la sua città natale.
IL NUOVO BOSKIC – Non voleva proprio saperne di giocare in attacco, Mario: gli piaceva fare a botte in mezzo al campo, lottare e recuperare palloni. Già, quelle sportellate e quelle scivolate hanno radici antiche. Che storia, a pensarci: scoprirà il feeling col gol più tardi, quando lo noterà anche Blazevic, ex ct della Croazia. Lo porterà all’NK Zagabria, dove inizierà a costruirsi la fama di nuovo Boksic: un peso importante, ma neanche troppo per uno cresciuto con la distruzione negli occhi.
IL SALTO DI QUALITÀ – La grande occasione arriverà nell’estate del 2007, dopo quattordici gol in cinquantuno presenza con i “Poeti”: c’è la grande Dinamo, che ha appena ceduto Eduardo all’Arsenal. Mario non cancella il ricordo del talentuoso brasiliano col passaporto croato, lo disintegra: diventa quasi una divinità, per il suo passato – e quel diploma da artigiano piastrellista nel cassetto – e pure per il talento, la lotta, i gol. Gioca anche da trequartista e segna la bellezza di quarantadue reti in tre anni, conquistando anche un titolo di capocannoniere.
Il suo passaggio alla Dinamo ha del leggendario: si dice che nella sua ultima stagione a Zagabria, quando era ormai un pezzo pregiato, l’allenatore Jurcic gli chiese di fare delle flessioni e Mario, a muso duro, gli rispose di no; non fiatò, il tecnico, poiché sapeva sia della sua importanza per il club che della sua… pericolosità. Erano già storia – o mito, scegliete voi – i litigi, e pure le risse, col patron Mamic. Insomma: Mandzukic non era certo uno che aveva paura, tantomeno delle “autorità”. E forse pure per questo s’è preso il cuore dei Bad Blue Boys, i tifosi più caldi del Maksimir.
IL DESTINO – Ma nell’agosto del 2010 quella storia d’amore finisce: la Germania torna nel destino di questo gigante di un metro e novanta per ottantacinque chili. Ha i colori del Wolfsburg, che sborsa circa otto milioni, dove trova Edin Dzeko, un altro che sa cos’è la guerra. E c’è pure l’ex juventino Diego, oltre che Barzagli. Soffre la forte concorrenza del bosniaco, inizialmente, ma quando va via, al Manchester City, tutto cambia: dopo aver giocato praticamente in ogni ruolo, spesso da esterno, torna al centro dell’attacco. Tornano i gol, tanti e decisivi: otto, tra i quali una doppietta all’Hoffenheim, che vorrà dire salvezza – all’ultima giornata.
IL BAYERN E QUELL’INTERISTA… – Euro 2012 è un’altra svolta nella carriera del panzer croato, che segna tre gol nella massima competizione continentale – con tanto di titolo da caponnoniere, condiviso – e strega il Bayern Monaco: i bavaresi sborsano tredici milioni di euro e già allora in Italia, mentre la Juve spende pure di più per Isla, ci si chiede perché nessuno abbia puntato su un bomber del genere. Ha uno sponsor imporante, all’Allianz: Karl-Heinz Rummenigge, che chiama in fretta il presidente Hoeness e gli dice di prenderlo subito, quel croato, ché “è fortissimo”.
Inizia a vincere, da protagonista: segna subito quindici gol in campionato e si porta a casa la sua prima Bundesliga. Ma l’apoteosi è in Champions League: mette dentro il momentaneo uno a zero, in finale, contro il Borussia Dortmund. E poi la alza alta, altissima, quella coppa.
UN’ALTRA SVOLTA – Ecco: l’avrete capito, la vita di Mario è segnata da parecchie svolte. L’estate del 2013, quando ha ormai toccato il cielo con un dito, è un’altra: arriva Pep Guardiola sulla panchina del Bayern e le cose cambiano. Irrimediabilmente. Col catalano il rapporto proprio non decolla, anzi: precipita, sfiorando il fondo più buio che si possa immaginare. È una stagione difficile, nonostante i gol – comunque diciotto – e le vittorie.
L’OCCASIONE – Quando arriva la chiamata da un altro guerriero, Diego Simeone, Mario non più dire di no: l’Atlético sembra la sua dimensione, per l’attitudine combattente. Pure qua lascia un pezzo di cuore, tra difficoltà e periodi negativi: arriva al punto di non tirare in porta per due mesi, ma non è certo lui il tipo che si abbatte facilmente. Il bottino finale è comunque buono: venti reti, tra cui una decisiva nel derby di Supercoppa col Real.
C’È LA SIGNORA – Le sliding doors, rieccole: c’è la Juve, fresca finalista di Champions, che sta rivoluzionando; via Tevez e Pirlo, quasi subito. Marotta non ha dubbi: “È Mandzukic l’erede di Carlitos”, dice, lasciando un po’ perplesso chi lo ascolta. Ma il dg bianconero sa bene che tipo è Mario, a differenza di tanti. Il croato dovrà essere la pietra angolare sulla quale costruire il nuovo ciclo: esperienza, cattiveria e fiuto del gol per la Signora; tutto ciò che serve in una calda estate di cambiamenti.
AUGURI, CAMPIONE! – Il resto è storia recente: le critiche, i mugugni, la difficoltà a segnare. Colpa di una precaria condizione fisica, che però Mario non esterna: tiene tutto dentro, il guerriero croato, poi lo tira fuori sul campo. Inizia a metterla dentro spesso, sempre più spesso: valgono nove punti, i suoi gol in campionato. Non serve aggiungere altro. Ormai ha conquistato la Signora, che ha reso quel gigante un po’ più buono. E no, non vuole saperne di lasciarlo andare: auguri, Mario!
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