Si aspettava la notizia da un momento all’altro, come si attende il ritrovamento di un congiunto scomparso, come l’arrivo in stazione del treno su cui viaggia la fidanzata. Finalmente, quel 19 maggio 2010 le agenzie battono uno scarno comunicato: “Il presidente della Exor, John Elkann ha conferito, con delega piena, l’incarico della presidenza della Juventus f.c. al cugino Andrea Agnelli, con decorrenza immediata”.
Quel sabato pomeriggio, erano circa le 18,00, si iniziava ad estirpare le erbacce cresciute sulle macerie causate dalla cattiva gestione precedente. Un po’ come sarebbe avvenuto per bonificare l’area che ospiterà il prossimo JVillage. Era sotto gli occhi di tutti che la triade più scalcinata della storia della Juventus era riuscita laddove pure Calciopoli aveva lasciato qualcosa ancora in piedi.
A molti era addirittura parsa chiara la volontà di ridurre il valore del brand per poterlo vendere meglio al miglior offerente. L’operazione però, ancorchè finanziariamente ineccepibile, cozzava con la tradizione, la cultura, l’essenza di casa Agnelli.
Dopo la continua, esasperata, sistematica contestazione piombata come una mannaia sulla testa del nipote dell’Avvocato e sulla società, totalmente avulsa da qualunque contenuto juventino, la misura era colma. La chiamata di Andrea era la parola “fine” ad un periodo orribile, ma anche la dichiarazione aperta di sconfitta di una linea dirigenziale che aveva permesso i soprusi più incredibili, dalla serie B al cambio di allenatore in corso d’opera, come mai (Carniglia escluso) era avvenuto. In altri termini, Andrea Agnelli presidente era la prova provata della vittoria dei tifosi, contro la miseria delle operazioni sottobanco consumate in borsa. Aveva vinto l‘amore per la propria identità. Si apriva un nuovo corso juventino, quanto vincente solo il tempo ed il lavoro lo avrebbero stabilito.
C’era subito da recuperare l’attributo che più aveva sofferto: la Juventinità. Ancor prima dei disastri economici. Chi meglio di un giovane preparato e svezzato dalla vera “triade”, cresciuto a pane e Juventus in famiglia con tale padre e “sfegatata” madre, poteva ritornare a parlare di Juve in sede? I muri si erano dimenticati di ragionamenti a righe bianche e nere!
Dopodiché si trattava di rifondare la società. Partendo dal direttore sportivo della Sampdoria, tale Marotta Giuseppe, manager di belle speranze e fresco di un grande successo, avere portato la Samp in Champions, tanta roba. Si trattava di ricostruire la rete di osservatori, di presenziare sul mercato da protagonisti e non più da superpagatori di seconde e terze scelte. Al nome di Paratici, alzi la mano chi allora non disse: “Paratici, chi?”.
Non è stato facile, non è stato soprattutto immediato, ma poco per volta la Juventus è ritornata se stessa. La sera dell’inaugurazione del nuovo stadio, poteva formulare il discorso di presa di possesso, un vero presidente, uno che a pieno diritto poteva dire: “Noi siamo la gente della Juve, che sa vincere e che sa perdere, ma che non molla mai“. Era rinato l’orgoglio, per il popolo che sapeva di avere una casa ed una società.
Poi la scelta di Antonio Conte, fortemente voluto dal presidente, come allenatore e dispensatore di juventinità. La squadra, forse non la più forte ed attrezzata, respirava da subito l’atmosfera che aleggiava attorno a Vinovo. I tifosi si sono stretti attorno ad essa, la dirigenza sempre presente. Il miracolo dello scudetto 2012 è la risultante che la chiesa, come ebbe a dire un noto mister di origine francese, era ritornata al centro del villaggio.
Andrea Agnelli da sei anni è presidente, nel bene e nel male, nei momenti delicati, Del Piero-affaire su tutti, come nei momenti di violenta presa di posizione, valga d’esempio l’assemblea dei soci di ottobre 2015 (“Non esistono anni di transizione, alla Juve”). Una caratteristica peculiare di Andrea su tutte: il costante e quasi ossessivo sguardo in avanti, verso il traguardo successivo, il prossimo successo, da juventino vero.
Quanto scritto è un atto dovuto. Mentre altri passano il tempo a celebrare il trionfatore, per dovere intellettuale sentiamo il bisogno di non dimenticare da dove si è partiti, da dove Andrea Agnelli è partito. Perchè non gli è stato regalato nulla, oggi ancora di più, viste le scomode posizioni occupate in Lega. Perchè ogni dato acquisito è stato frutto di lavoro e di fatica. Proprio per questo le vittorie conseguite appaiono più belle.
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