Morti, altri morti: prima Parigi, ora Bruxelles. L’Europa piange di nuovo, dopo pochi mesi: è una guerra liquida, subdola, che non ammette distrazioni. E pensare che chi ha attacca sia disposto a morire e, anzi, vuole farlo, fa dannatamente paura: è una situazione nuova, alla quale serve una risposta collettiva rapida e decisa. Anche perché, tra poche settimane, ci saranno gli Europei, proprio in Francia.
I terroristi hanno colpito la nostra vita quotidiana, sia a Parigi che a Bruxelles: un teatro, un bar, uno stadio, la metro, l’aereoporto. E hanno mostrato la loro forza, dopo l’arresto di Salah Abdeslam, che sembrava e poteva essere un duro colpo per le cellule europee. Invece, no: hanno anticipato i tempi di un attacco già pianificato, si dice da due mesi, dimostrando di poter colpire sempre. È una guerra, dicevamo: gli attacchi, per ora, sono avvenuti solo in paesi attivi nella lotta all’Isis. E in una guerra, si sa, ci si può aspettare di tutto.
Il presidente della Federcalcio francese, Noel Graet, ha assicurato che “l’Europeo non è in pericolo”, ma ha anche ammesso che “non si potrà mai parlare di rischio zero”. È che un evento di tale portata – “sono attese due milioni di persone“, ha detto Graet – è sicuramente un obiettivo sensibile, per tanti motivi. Ora, infatti, l’Uefa si interroga sul da farsi: “Il rischio di porte chiuse c’è”, ha rivelato il vicepresidente del massimo organismo continentale, Giancarlo Abete.
Secondo qualcuno, questa sarebbe una sconfitta agli occhi dei signori del terrore. È vero, forse, ma è altrettanto vero che giocare con la vita delle persone è deleterio. Per cosa, poi? Affermare una forza che non sembra esserci: gli attentati sono il frutto di mesi e mesi di lavoro – “finanziati da chi?”, ci si domanda -, ma sono innegabili le falle interne, a partire da quelle dei servizi segreti.
Nessuno è al sicuro. È una triste verità, che le istituzioni politiche e, in questo caso, calcistiche devono considerare. Far finta che non sia successo nulla, giocando magari a porte aperte, può essere un “segnale” per l’opinione pubblica, ma è un rischio troppo grande da correre. Perché piangere i morti non può diventare l’abitudine.
Felice Lanzaro (@FeliceLanzaro)
This post was last modified on 23 Marzo 2016 - 17:35