Che la fermata di Monaco fosse anche il capolinea delle divagazioni continentali di Madama era tutto sommato prevedibile; molto meno facilmente immaginabili, invece, sono state le modalità apparentemente beffarde con cui è si è fatta accompagnare a un’uscita varcata, secondo certa vieta e sclerotizzata letteratura sportiva, a “testa alta”.
Il retour match con la poderosa corazzata bavarese ha rappresentato il trionfo della logica applicata al football; chi sbaglia paga e con aggravio di sovrapprezzo quando, per ragioni non unicamente imputabili al valore dell’avversaria, commette lo stesso errore compiuto dall’antagonista nella partita d’andata, cioè: smettere di giocare a poco meno di mezzora dal termine delle ostilità e farsi comprimere a ridosso del proprio sancta sanctorum, confidando troppo nella resilenza di una fase difensiva in debito di elasticità.
Rispetto all’andazzo pervicacemente proposto in campionato sarebbe occorso un segnale di forte discontinuità, giacché lo spessore del Bayern, lo sanno anche le pietre, è ben diverso da quello di un’Atalanta piuttosto che di un Sassuolo qualunque, al cui cospetto è ragionevolmente facile condurre in porto un risultato appena imbastito, stante peraltro la loro impossibilità di estrarre dal mazzo un joker pigliatutto.
Chi si appellerà alla malasorte o alla discutibile, ancorché casalinga conduzione di gara del sig. Eriksson per spalmare balsami lenitivi sulle piaghe della sconfitta si consegnerà, sbagliando, a una consolazione d’accatto, non meno meschina e fraudolenta delle manifestazioni di giubilo scatenatesi in certe piazze, e financo in Augusta Taurinorum, all’ultimo triplice fischio del suddetto arbitro svedese.
Va dato atto alla Juve di aver giocato molto bene per circa settanta minuti. A dispetto degli imprevisti, del pronostico avverso e di un ambiente particolarmente infuocato, i bianconeri ( schierati come preconizzato dallo scrivente con il modulo 4-5-1 ) si sono sintonizzati immediatamente sulle frequenze più adatte al disturbo del tiki taken teutonico, molestandolo insistentemente sulle corsie laterali e soffocandolo sul nascere con un pressing insistito sul portatore di palla.
Compatta, concentratissima, ficcante, sostanzialmente perfetta per tre quarti di partita, la Regina d’Italia, che a un certo punto avrebbe ampiamente meritato un margine di vantaggio decisamente più ampio, si è poi progressivamente spenta convertendosi da granturismo di lusso in una di quelle vetturette da zona a traffico limitato; è stato l’inizio della fine.
Del senno di poi son piene le fosse e ripercorrere mentalmente per centinaia di volte il fotogramma del momento in cui un giocatore con l’esperienza di Evra, anziché scaraventare il pallone direttamente nell’Isar, si avventura in un improbabile dribbling fra Vidal e Lahm, innescando così l’azione del pareggio bavarese, non cambierà il destino scritto per quel maledetto 91′ minuto.
Alla fine ha prevalso giustamente la squadra più forte e meglio allenata. A certi livelli sono i dettagli a determinare la differenza, anche se definire tali un’autonomia di corsa abbondantemente superiore, la chirurgica spietatezza nei momenti catartici e la qualità delle alternative a disposizione di Guardiola, sarebbe quantomeno riduttivo.
Vero, la Juventus era priva di uomini importanti per problemi di cui è inoppugnabilmente responsabile, ma suvvia, pur non disconoscendo l’impegno e l’abnegazione profusi dai chiamati alla pugna, è intellettualmente onesto ammettere l’intollerabilità di un centrocampista a scartamento ridotto ( Khedira ) e l’inadeguatezza di gente come Hernanes, Sturaro e Pereyra a contesti più impegnativi di quelli domestici, così come sarebbe opportuno capire l’effettiva dimensione di Morata, che nell’unica volta in cui, da due anni a questa parte, si è lanciato in un’iniziativa personale senza guardarsi le scarpe, ha allestito un “numero” da manicomio, purtroppo annacquato nel prosieguo dalla carenza di implacabilità che già a Siviglia comportò il pagamento di un salatissimo dazio.
Ora gli ex vice campioni d’Europa dovranno attingere a tutta la maturità di cui dispongono ignorando l’inutile faticaccia accumulata in Germania e il senso di smarrimento indotto dal ritorno a una realtà imparagonabile alla dolcezza del sogno, per ottemperare all’ineludibile dovere di razziare quanto nelle loro vere possibilità.
Nel mentre, sarebbe apprezzabile che la Società dimostrasse tangibilmente le ambizioni di appartenenza definitiva all’élite continentale…
Al derby dunque, senza rimpianto o particolare amarezza; tutto quel che a Monaco poteva e doveva fare, con l’eccezione dello sciagurato avvicendamento Álvarito / Mandžukić, la Juventus lo ha fatto, andando pure oltre sé stessa. Di questo va ringraziata, ma senza eccessivo ricorso alla mozione dei sentimenti, giacché, vincere è ancora e sempre l’unica cosa che conta anche oltre confine e le eliminazioni, per quanto onorevoli, non arricchiscono la bacheca.
Ezio MALETTO ( Twitter @EzioMaletto )
This post was last modified on 18 Marzo 2016 - 09:33