Resta, quell’odore. Forte, fortissimo, che sembra non si tolga. È l’odore della speranza, che s’era fatto sempre più intenso: aveva inebriato il popolo bianconero, fino a ubriacarlo di gioia. È che per ottanta minuti i marziani sembravano meno lontani, i sogni più vicini, le speranze più concrete. E scommettiamo che qualcuno, tra il meravigliato e l’incredulo, s’è dato qualche schiaffo. Con la paura di svegliarsi, ma la fiducia che no, non fosse il frutto di qualche malsana fantasia.
Ma poi, d’un tratto, quell’odore è diventato sempre più aspro. Ha iniziato a corrodere l’olfatto, a dare la nausea, a far vivere brutti momenti. La rete di Lewandowski era stata un’avvisaglia, ma quella di Muller ha ammazzato tutto quanto di bello fatto: da lì, è stato quasi un film già visto.
Dimenticare l’alchimista che ha prodotto quella magica fraganza iniziale, però, è da pazzi. E sembra che qualcuno lo stia facendo. Cambiare degli equilibri fragili, labili, quasi inesistenti è cosa difficile. Ancora di più quando devi fare con ciò che hai, senza quello che la sorte ti ha tolto. E che ti poteva ridare. Sì, pareva pure lo stesse facendo, ma sul più bello ha deciso di girare le spalle. E, quindi, non si può rinnegare tutto il lavoro che ha permesso di inebriarsi di quell’assurdo profumo, pure se per poco. È stato un lavoro talmente attento, minuzioso, alla ricerca della perfezione.
Massimiliano Allegri, in due anni, s’è dimostrato un abilissimo alchimista: ha preso una squadra con la paura di volare e l’ha fatta diventare un’aquila, temuta sulle cime più alte del continente. È arrivato in punta dei piedi, tra i fischi, per poi prendersi l’affetto, le vittorie, la gloria: “Portaci a Milano”, gli cantava la curva. No, non ce l’ha fatta, ma la serata bavarese lascia una consapevolezza: questa Juve, questo gruppo, ha saputo far paura a una delle due squadre più forti d’Europa. Non è un caso, ma il frutto di quel lavoro di fino, che non può essere cancellato da un cambio sbagliato.
È una creatura di Allegri, questa Juve. Se l’anno scorso poteva essere considerata una sorta di ibrido – ma neanche -, tra lui e Conte, quest’anno è tutt’opera sua. S’è preso le critiche, quando a inizio stagione proprio non girava, ma ora merita solo applausi: perché rivoltare una rosa capace di arrivare in finale di Champions League non è facile, per niente
Il lavoro del tecnico si nota, pure tanto: un esempio, quello più eclatante, è Paulo Dybala. Arrivato dal Palermo, con un’identità tattica tutta da scrivere, ha trovato a Torino l’abito su misura per lui. Merito del gran lavoro del sarto livornese, che gli ha saputo dare la giusta collocazione e le giuste motivazioni. Senza pensare ai chiacchieroni, che criticavano il suo poco utilizzo, ma dosando con maestria e calma le tante variabili in gioco.
Con la stessa calma, adesso, si cercherà quel qualcosa che serve per fare un passo in avanti. Quello definitivo, questa volta; quello che, finalmente, dovrà riportare i bianconeri stabilmente nell’élite. Perché è quello che la storia tiene caldo ai bianconeri, senza dubbio; perché non si debba più uscire a testa alta, ma giocarsela sempre alla pari e, semmai, fare poi i complimenti agli avversari. Serve un centrocampista, uno che sappia dettare i tempi dell’azione e giostrare la manovra: Marchisio è perfetto, ma sembra uno spreco relegarlo lì. E, allora, è partita la ricerca: la Juve ha un solo obiettivo ed è quello d’imporsi sul palcoscenico più importante.
Felice Lanzaro (@FeliceLanzaro)
This post was last modified on 18 Marzo 2016 - 11:12