Facciamo un piccolo, dolorosissimo passo indietro. Una punizione, un cartellino rosso, la pioggia e uno snervante senso di frustrazione misto a impotenza. Al Mapei Stadium non si è mai passeggiato, ma nemmeno affondato: il rigore non concesso a Sturaro e l’espulsione di Chiellini hanno “smascherato” il volto annoiato e assonnato della Juventus scesa in campo mercoledì sera, che magari in undici uomini sarebbe comunque riuscita a cavarsela in qualche modo. Un volto che ha trovato l’esatta antitesi in quello scuro e tirato messo in mostra da Gigi Buffon a fine partita.
“Non si può fallire un primo tempo così com’è accaduto con il Sassuolo. Se giochi un primo tempo indegno come quello di oggi, dove non vinci un contrasto e non fai tre passaggi di fila, non si può colpevolizzare un solo reparto. Abbiamo giocato male tutti. Sono sgomento, fa male all’anima vedere la propria squadra sovrastata, che non capisce l’importanza della gara. A 38 anni non ho voglia di fare certe figure da pellegrino“.
Nessuno ha voglia di farle, nessuno si sarebbe aspettato parole così pesanti. Qui le analisi tattiche non c’entrano: come ha tante volte raccontato Paolo Montero, quando c’era qualcosa di pesante da dirsi, lo si faceva nel chiuso dello spogliatoio. E nella grande Juve degli anni ’90 di stracci, scarpe e cazzotti ne sono volati: chiedere a Lippi e Deschamps, tanto per fare un esempio. All’esterno poteva giungere soltanto una ovattatissima eco di quanto succedeva tra docce e armadietti. Questa volta Buffon è andato oltre: lo scorso anno, dopo Cesena-Juventus 2-2, usò parole dure ma pur sempre “di circostanza”.
La forza della Juventus è sempre stata quella di specchiarsi davanti alle proprie responsabilità, di mettere a nudo le sue debolezze senza farlo vedere agli avvoltoi che aspettano bramosi fuori la porta. La compattezza granitica nasce anche nella schiettezza dei confronti tra giocatori, nei litigi, nei chiarimenti, nelle assunzioni di responsabilità davanti al gruppo e nelle scuse, se è il caso di farle. Mercoledì sera, Gigi Buffon ha usato parole che solitamente non salgono alla ribalta delle cronache ma si fermano prima della fatidica porta: come se gli fossero rimaste ancora in gola, come se il “j’accuse” fosse troppo profondo e circostanziato (nei confronti di chi…?) per riuscire a nasconderlo alla telecamera.
C’era rabbia, più che delusione: e le parole che ha usato, fanno pensare che la rabbia fosse diretta a qualcuno in particolare. Non certo a Chiellini, perché la sua è stata una ingenuità pagata a caro prezzo, non una mancanza di impegno. Chiunque fosse il destinatario, l’idea che invade subito la mente è quella di uno spogliatoio non più granitico come un tempo, cosa che naturalmente si riflette in campo. Dire certe cose alla squadra, soprattutto se si è capitani, è un dovere: dirle davanti ad un microfono, ha più il sapore dello scaricabarile, dell’accusa ad personam, nonostante l’ovvio uso del “noi”. Speriamo sinceramente di aver avanzato un’ipotesi peregrina: nel caso contrario, sarebbe inutile pensare di richiamare Pirlo, Tevez e Vidal. La mancanza che ora si sente più di tutte (concedetecelo, tanto i momenti-nostalgia vanno sempre di moda) è quella di Simone Pepe e di Marco Storari. A questa Juve, per ora, manca un pezzo di anima.
Gennaro Acunzo